Secondo sondaggi, Afd, il partito xenofobo e ultranazionalista tedesco, viaggerebbe verso il 19 per cento dei consensi accingendosi a tallonare il partito socialdemocratico. Il fenomeno si inscrive nella generale affermazione dell’estrema destra in tutta Europa, ma in questo caso nel paese che più di ogni altro si era dato un confine invalicabile in quella direzione.
di Marco Bascetta
Il dilagare delle destre nel Vecchio continente, dalla Scandinavia ai paesi mediterranei, da est a ovest, e anche nel suo centro franco-tedesco, è talmente nitido e macroscopico da rendere del tutto insufficienti, se non oziose, osservazioni e schermaglie sulle mancanze, gli errori, i vizi e le divisioni di questa o quella sinistra nazionale, che avrebbero contribuito a favorire una così temibile deriva. Non si tratta ovviamente di cercare alibi, ma vista l’eterogeneità dei contesti in cui la destra estrema si afferma più o meno decisamente ovunque non ci si può esimere dall’interrogarsi sulle radici e gli elementi comuni. Laddove le divisioni e i conflitti nel campo delle sinistre sono più una conseguenza che una causa di questa espansione a destra. Cosicché la loro unità non costituirebbe una soluzione complessiva del problema, per quanto molti continuino a sperarci.
Neanche ci si può accontentare di rievocare genericamente l’indiscusso trionfo del neoliberismo e la sconfitta storica del movimento operaio tra gli anni ’80 e ’90 del secolo scorso che hanno comunque ridimensionato fortemente la forza contrattuale delle organizzazioni operaie, le aspirazioni e l’autonomia di pensiero delle socialdemocrazie. Si può tuttavia azzardare qualche ipotesi sugli ulteriori fattori intervenuti nell’ alimentare l’onda reazionaria.
Di certo si è indebolita e offuscata la memoria antifascista, non tanto sul piano della rievocazione celebrativa, quanto nella sua efficacia politica come antidoto alle ridefinizioni autoritarie e gerarchiche dei sistemi politici. Nonché alla interpretazione della democrazia come una scelta di affidamento al riparo da ogni manifestazione di conflittualità. Un culto della stabilità politica che, del resto, non appartiene alla sola destra. Senza questo offuscamento il riarmo della Germania sarebbe stato impensabile, così come una inclinazione antipacifista, che mira ben aldilà del caso estremo dell’aggressione russa all’Ucraina. Per più di mezzo secolo le destre imparentate a vario titolo, se non col fascismo nel suo insieme con molti dei suoi contenuti, sono state tenute a freno dal fatto che quei regimi avevano perduto la seconda guerra mondiale, con l’eccezione di Spagna e Portogallo che, non avendola combattuta non l’avevano neanche persa e si godevano beatamente le rispettive dittature.
In seguito la censura si sarebbe spostata sugli sconfitti della guerra fredda, ai quali vennero forzatamente assimilate le politiche socialdemocratiche e keynesiane nonché le organizzazioni del movimento operaio. Le quali, pur di evidente natura democratica, quando non si convertivano del tutto al neoliberismo, restavano ancorate a una visione acritica, e nei casi peggiori apologetica, del ruolo dello stato e del lavoro salariato. Finendo così travolte dalle trasformazioni del sistema produttivo e dalle loro implicazioni culturali. Il terreno perduto, lo si è visto nitidamente nell’Europa dell’est, è stato prontamente occupato dalle forze della “Reazione”, nel senso più letterale del termine, attraverso l’esercizio di una sorta di “autoritarismo caritatevole” fanaticamente atlantico. Così la crescita smisurata della diseguaglianza non si è affatto tradotta in una rinnovata spinta egualitaria. Ma nella rassegnata accettazione di un immutabile stato di fatto o nel risentimento, ovverosia nello stato d’animo che più di ogni altro si presta alla manipolazione politica, alla ricerca di capri espiatori e di un potere forte cui affidare il proprio riscatto.
Ma vi è un altro elemento più concreto e immediato che gonfia le vele della destra: la resistenza contro la transizione ecologica. In tutta Europa, dai Paesi bassi, alla Germania, alla Francia, soprattutto nelle province rurali, coltivatori e allevatori si mobilitano, invadendo le strade con i loro trattori e premiando formazioni populiste e antieuropee contro normative e restrizioni volute dalla Ue nel tentativo, attribuito soprattutto alla sinistra, di limitare l’impatto ambientale di colture e allevamenti intensivi. Fin troppo facile per le destre cavalcare resistenze corporative e pratiche produttive inquinanti che hanno ormai acquisito la forza della “tradizione”. In un insidioso, ma non incomprensibile interclassismo, il rifiuto della riconversione ecologica accomuna il possessore squattrinato di una vecchia auto diesel o di una stufa a carbone, agli interessi dell’industria chimica ed estrattiva e dei suoi azionisti, agli operai in ansia per il proprio posto di lavoro. In mancanza di compensazioni e alternative immediate, riversando i costi del cambiamento su cittadini già sufficientemente provati, l’Unione europea è destinata a implodere in una tempesta di pulsioni nazionaliste e reazionarie. Eppure anche su questo delicato terreno sembra prevalere la colpevolizzazione dei poveri “inquinatori”, mentre la ricerca delle soluzioni riguarda essenzialmente la tutela delle imprese e dei loro margini di profitto. O gli incentivi per modalità di consumo accessibili ai soli ceti privilegiati.
Questi passaggi riguardano tuttavia un processo storico essenzialmente europeo sempre più marginale nell’ambito di un assetto globale tutt’altro che tramontato per lasciare spazio al ritorno di stati nazionali pienamente sovrani. Un assetto che va piuttosto ridefinendosi con l’entrata in scena di nuovi attori globali segnati da storie e contraddizioni diverse e che non sembra destinato a riprodurre semplicemente ad altre latitudini i modelli egemonici del passato (quello britannico prima, quello americano poi). Dunque è questo più vasto scacchiere che converrà interrogare per venire a capo dell’impasse, altrimenti insuperabile, in cui si trova oggi il Vecchio continente.
da il manifesto
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Il rifiuto della conversione ecologica da parte del possessore di un’auto con motore termico è in realtà comprensibilissimo, per ragioni materiali, e finché non vengono affrontate non si va da nessuna parte.
L’auto con il motore termico è considerata “inquinante” (nel senso di climalterante), ma l’auto in sé non estrae combustibili fossili, brucia quello che gli butti dentro e lo trasforma in forza motrice.
Che non deve almeno in principio necessariamente essere di origine fossile: un motore sufficientemente semplice come quello della Model T (riproducibile da qualunque officina, è tecnologia ottocentesca) può andare tranquillamente con l’etanolo.
È tecnologia alla portata di una qualsiasi comunità Amish con un campo grande abbastanza da dedicare all’etanolo (sottraendolo ai bisogni alimentari, certo, cosa che lo renderebbe un lusso, cosa che il carburante fossile con la sua disponibilità finita è per definizione).
Tale tecnologia impallidisce se confrontata con un’auto elettrica, i metalli rari che essa ingloba, tutta l’elettronica, la mostruosa infrastruttura di cui ha bisogno per marciare — no, anzi, se confrontata con QUALUNQUE auto nuova, che richiede molta energia e materiali per essere fabbricata.
Il problema insomma non è l’auto, sono i viaggi che essa fa e il combustibile che usa.
La maggior parti di tali viaggi sono inutili e non piacevoli: il nostro ipotetico automobilista “povero e col diesel” passa ore in coda per recarsi al luogo di lavoro salariato o per procacciarsi merci, socializzare o svolgere attività ricreative che non sono disponibili nel suo quartiere.
Detto in altre parole, il problema è lo sprawl urbano, i centri città trasformati in AirBnB e la mancanza di tempo (lavorando si intende 40 ore) per andare col cestino della frutta dall’agricoltore sotto casa.
A tali destinazioni d’uso si aggiungono degli utilizzi di reale necessità e degli occasionali spostamenti ricreativi (la gita in Vespa sui colli) che vanno invece difesi, coi denti, ma che costituiscono forse il 10% dei chilometri-anno-persona compiuti da un cittadino medio… che guardacaso è la proporzione di etanolo presente nella benzina venduta alla pompa in USA.
La “transizione ecologica” è in definitiva una mezza cagata, serve una transizione economica che aggredisca il capitalismo, rifiuti il lavoro salariato, si riprenda le città e già che ci siamo pure le campagne.
Gli utilizzi per cui il motore a combustione può essere sostituto (mobilità urbana, pendolarismo, eccetera) sono ESATTAMENTE quegli utilizzi che verrebbero istantaneamente meno.
In tutti gli altri casi, l motore a combustione per sua semplicità costruttiva, densità energetica e facilità di trasporto dei carburanti, è insostituibile: in mezzo al deserto, in fuoristrada sulle montagne, in elicottero…
Dunque, logica vorrebbe piantarla di parlare di “transizione ecologica” e iniziare a occupare, a meno che lo scopo non sia creare domanda di SUV elettrici per sostituire tutte le macchine già esistenti e funzionanti.