La reazione repressiva di fronte al semplice imbrattamento del Senato mostra gli strumenti giuridici con cui, nel nostro ordinamento, può essere sanzionato come «pericoloso per la società» chi lotta contro cambiamento climatico e diseguaglianze sociali
di Anna Cortimiglia
Nelle ultime settimane, le azioni di disobbedienza civile nonviolenta portate avanti dal movimento Ultima Generazione hanno catalizzato l’attenzione mediatica. Poche settimane fa, su richiesta della Questura di Pavia è stata fissata per il giorno 10 gennaio l’udienza davanti al Tribunale di Milano per decidere sull’applicazione della sorveglianza speciale nei confronti di Simone Ficicchia, vent’anni, attivista e tra i portavoce dell’organizzazione.
Il mattino del 2 gennaio, invece, cinque attivisti dello stesso movimento hanno imbrattato Palazzo Madama con un getto di vernice arancione. Tre di loro sono stati arrestati e trattenuti sino al giorno successivo, in cui si è instaurato il processo con il rito speciale del giudizio direttissimo. L’accusa nei loro confronti è di danneggiamento aggravato ai sensi dell’art. 635 del codice penale: accusa che ha giustificato l’arresto in flagranza di reato e la scelta del rito speciale, come vedremo meglio.
Il susseguirsi di queste notizie porta al centro della scena, oltre al tema della crisi climatica, il rapporto tra la protesta e gli strumenti del diritto penale, che si intrecciano secondo schemi in parte già noti e in parte inediti.
Le azioni di Ultima Generazione interagiscono, infatti, con un ordinamento, quello italiano, in cui il dissenso politico deve fare i conti con istituti ereditati dal fascismo e con recrudescenze di accanimento legislativo nei confronti di un ampio novero di personalità ritenute «devianti»: militanti politici, stranieri, soggetti emarginati.
Il diritto penale contro il dissenso politico
Appartiene a una delle più recenti innovazioni in questo senso proprio il reato contestato a seguito dei fatti del 2 gennaio scorso: lo stesso Matteo Salvini ha rivendicato il ruolo del cosiddetto Decreto Sicurezza bis nell’arresto delle e dei militanti di Ultima Generazione. Nel 2019, infatti, è stato introdotto un terzo comma all’articolo 635, che punisce più gravemente il reato di danneggiamento «in occasione di manifestazioni che si svolgono in luogo pubblico o aperto al pubblico»: innalzando la pena a un massimo di cinque anni si consente l’arresto in flagranza.
In realtà, l’intervento non è stato decisivo come il ministro vorrebbe far credere dato che a permettere l’arresto era già il preesistente danneggiamento contro edifici pubblici. Si tratta comunque di un provvedimento sintomatico di un determinato uso del diritto penale nei confronti del dissenso politico, che infatti è tornato utile a fini propagandistici nel caso dell’imbrattamento del Senato. L’intento è colpire un tipo di fenomeno e, soprattutto, un tipo di autore estremamente specifico, decidendo in virtù di ciò di abbandonare qualsiasi senso della proporzione: per intenderci, la pena tra il minimo di un anno e il massimo di cinque è quasi identica a quella dell’omicidio colposo.
Accanto alla previsione normativa, dunque alle scelte di criminalizzazione a livello astratto, ha giocato un ruolo importante anche l’applicazione in concreto. Come segnalato da Ultima Generazione nonché dai tecnici che hanno commentato la vicenda, l’azione dovrebbe essere più correttamente qualificata, invece che come danneggiamento, come «imbrattamento», diversa e meno grave fattispecie di reato. La differenza è intuitiva ed è evidenziata nelle sentenze dei tribunali: risponde di danneggiamento chiunque distrugge, disperde, deteriora o rende, in tutto o in parte, inservibile il bene, cioè provoca un danno che incide sulla funzionalità della cosa e ne diminuisce il valore. Si è al di fuori di questa ipotesi se è possibile ripristinare, senza particolari difficoltà, l’aspetto e il valore originario del bene, ovvero esattamente ciò che è accaduto nel caso di Palazzo Madama, dove è stato sufficiente rimuovere la vernice lavabile, operazione che ha impiegato poche ore. Dalla scelta della pubblica accusa di contestare un reato in luogo dell’altro – aspetto che sembra poco più di una pedanteria tecnica – discendono conseguenze importantissime: la possibilità di essere tratti in arresto, di procedere per direttissima, nonché una notevole differenza sul piano delle sanzioni cui si va incontro.
Sorvegliati speciali
Quanto invece alla sorveglianza speciale, misura richiesta nei confronti di Simone Ficicchia, quello che si osserva è che la sensibilità politica del momento – e dunque la percezione dell’allarme sociale nei confronti dei fenomeni – è centrale nel definire la fisionomia dell’istituto.
Di tale misura si è parlato, in tempi recenti, quando è stata richiesta nei confronti di cinque militanti che hanno combattuto come internazionalisti, in intervalli di tempo diversi tra il 2015 e il 2018, contro l’avanzata del cosiddetto Stato Islamico nella Siria del nord ed è poi stata applicata a una di loro, Maria Edgarda (Eddi) Marcucci.
La sorveglianza speciale appartiene al novero delle misure di prevenzione, sanzioni comprese in quello che è stato definito come sotto-sistema penale di polizia. È un elemento di originalità dell’ordinamento italiano la presenza, accanto a un sistema di diritto penale «ordinario» che sanziona i reati ed è dominato da alcune garanzie fondamentali (i principi di legalità, giurisdizionalità e colpevolezza), di una serie di istituti che prescinde da tali garanzie. Le misure di prevenzione, infatti, incidono sulla libertà personale prima che un reato sia commesso e accertato con provvedimenti applicati, con ampia discrezionalità amministrativa, nei confronti di soggetti giudicati «sospetti» o «pericolosi». La sorveglianza speciale è la più afflittiva di queste misure.
La normativa prevedeva, originariamente, che potesse essere proposta per tre categorie di persone: per coloro che debbano ritenersi dediti a traffici delittuosi, coloro che debba ritenersi vivano abitualmente con i proventi di attività delittuose e per coloro che debba ritenersi siano dediti alla commissione di reati che offendono o mettono in pericolo l’integrità fisica o morale dei minorenni, la sanità, la sicurezza o la tranquillità pubblica. La riforma del 2011, che ha ricompreso le misure di prevenzione all’interno del cosiddetto Codice Antimafia, ha esteso l’applicazione delle misure di prevenzione agli indiziati di appartenere alle associazioni mafiose o di una serie di reati di cui è aggiornato l’elenco, riforma dopo riforma, in modo totalmente disomogeneo e secondo un ordine di priorità discutibile. L’ultimo arrivato, nell’ottobre 2022, è il reato di invasione di terreni per raduni pericolosi introdotto dal cosiddetto decreto anti-rave.
Cosa comporta l’applicazione della sorveglianza speciale, in concreto? Le prescrizioni generali sono quelle di trovarsi un lavoro, avere una dimora fissa, di farla conoscere all’autorità e di non allontanarsene senza preventivo avviso, di non rincasare la sera più tardi e di non uscire la mattina prima di una certa ora e senza comprovata necessità, di non detenere armi, di non partecipare a pubbliche riunioni. Accanto a queste limitazioni, il giudice può aggiungere quelle che ravvisi necessarie, «avuto riguardo alle esigenze di difesa sociale», come il divieto di soggiorno o l’obbligo di soggiorno in comuni o province.
È evidente che si tratta di limitazioni della libertà personale estremamente gravose, soprattutto considerando che vengono prescritte senza che sia necessario accertare che un qualsivoglia reato sia stato effettivamente commesso.
Cos’è pericoloso per la società?
Spesso si evidenzia la continuità della sorveglianza speciale rispetto al cosiddetto confino di polizia di epoca fascista, ma è già nella legislazione ottocentesca che misure simili erano previste per «oziosi, vagabondi, mendicanti e altre persone sospette» (codice penale sardo del 1839, norme poi estese a tutto il regno), permettendo in seguito uno stretto controllo sugli operai, schedati nelle fabbriche, e poi per quelle che vennero definite «classi pericolose della società» (così nel Testo Unico delle leggi di pubblica sicurezza del 1889). Nel regime fascista, ovviamente, le «persone pericolose» per le quali era previsto il confino erano, in sostanza, gli antifascisti.
Le leggi dell’Italia repubblicana si pongono in continuità: il presupposto comune a tutte queste misure non è, come si diceva, la commissione di un reato, ma l’appartenenza del soggetto a un «tipo di autore» che è individuato secondo il criterio – vago, indefinito e soggetto ad amplissima discrezionalità – di pericolosità sociale.
La sorveglianza speciale e le altre misure di prevenzione personali ci danno la possibilità, quindi, di individuare chi o cosa, in un determinato momento storico e in una determinata congiuntura politica, è considerato pericoloso per la società.
È ancora il riferimento alla pericolosità sociale, tramite il richiamo normativo ai medesimi presupposti di applicazione delle misure di prevenzione personali, a individuare nella legislazione attuale la figura del migrante pericoloso: un soggetto per il quale il prefetto può decretare l’espulsione amministrativa e spesso, di conseguenza, il trattenimento in un centro di detenzione per stranieri (Cpr). Un’altra pena senza delitto, irrogata sulla base di precedenti di polizia e giudizi standardizzati su pericolosità, inaffidabilità e marginalità sociale.
Lo strumento diventa adatto a reprimere tanto i fenomeni come l’associazione mafiosa quanto il militante pericoloso, la disobbedienza sociale, lo straniero, fino ad arrivare, a seconda della necessità propagandistica del momento, al partecipante a un rave party. L’estensione della repressione a tali fenomeni non incontra particolari resistenze nell’opinione pubblica, come si nota dalla condanna praticamente unanime dell’azione di Palazzo Madama da parte della politica nonché dalle sguaiate richieste di pene esemplari per un’azione che non ha provocato danno alcuno. Ma che la proporzionalità tra pena e delitto non sia una priorità, quando si parla del tipo di autore militante, era già evidente dal silenzio assordante sulla vicenda di Alfredo Cospito, in sciopero della fame dal 20 ottobre, all’ergastolo ostativo in regime di 41 bis per una strage senza vittime.
Di fatto, gli attivisti di Ultima Generazione fanno esplodere una contraddizione essenziale: quella nei loro confronti è la repressione esemplare di soggetti considerati un pericolo per la società per comportamenti che mirano ad accendere i riflettori sull’inazione nei confronti del rischio per la sopravvivenza umana sul pianeta rappresentato dal riscaldamento globale.
Una contraddizione che rende urgente riflettere su cosa, oggi, può essere sanzionato come pericolo per la società, e con quali strumenti. Per riportare al centro, in ultima analisi, la lotta contro ciò che davvero di pericoloso siamo chiamati ad affrontare: il cambiamento climatico, l’emarginazione sociale, le disuguaglianze.
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