Maggiore della Finanza arrestato per violenza sessuale
- luglio 07, 2012
- in malapolizia, violenze e soprusi
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Era uno degli ufficiali più in vista della Guardia di Finanza calabrese. Comandante del Gico di Reggio Calabria, Maggiore, con l’imminente possibilità di essere promosso al grado di Tenente Colonnello. Ha però gettato al vento la propria carriera, ricoprendo di fango il proprio ruolo. Nelle scorse ore si sono aperte le porte del carcere per Michelangelo Amendola, oggi 42enne: la Cassazione, infatti, lo ha condannato a sette anni di reclusione per violenza sessuale e falso ideologico, confermando l’impianto accusatorio già avvalorato nei precedenti gradi di giudizio.
Le indagini e il processo di primo grado furono portati avanti dal sostituto procuratore Giovanni Musarò, che, prima di passare alla Dda, era specializzato in indagini su crimini sessuali. In buona sostanza, Amendola, sfruttando il proprio ruolo di ufficiale della Guardia di Finanza, avrebbe raggiunto le coppiette appartate in zone isolate in atteggiamenti intimi e, dietro il pretesto di un controllo, avrebbe proceduto a perquisizioni un po’ troppo personali. “In particolare – è scritto nel capo di imputazione per il quale Amendola è stato condannato in tutti e tre i gradi di giudizio – con il pretesto di dover eseguire una perquisizione personale, costringeva (la donna, ndr) a togliere gli slip e a piegarsi con il busto in avanti, quindi le introduceva un dito nella vagina e successivamente le palpeggiava il seno”.
Un fatto che sarebbe avvenuto nella località del Fortino di Pentimele, zona collinare di Reggio Calabria, notoriamente luogo cittadino in cui le coppie si appartano alla ricerca di un po’ di intimità: “Cercavo di dissuaderlo dal portarci in Questura – racconterà una delle vittime – lo stesso acconsentiva immediatamente, ma diceva che almeno avrebbe dovuto perquisirci. Quindi invitava il mio fidanzato a seguirlo a qualche metro di distanza, lontano dalla mia vista per effettuare la perquisizione; dopo pochi minuti, finito con il mio fidanzato, portava me ove lo stesso non poteva vederci. Lì mi invitava ad alzarmi la gonna ed abbassarmi gli slip ed a piegarmi in avanti, a questo punto chiedevo che tale tipo di perquisizione fosse almeno eseguita da una donna, ma lo stesso rispondeva che doveva procedere lui; quindi eseguivo i suoi ordini e dopo essermi piegata il presunto poliziotto introduceva un suo dito nella mia vagina. Dopo di che mi alzava la maglietta ed il reggiseno palpandomi e finiva con il perquisirmi anche la borsa. Terminata la perquisizione, mi chiedeva di fornirgli il mio numero di utenza mobile, poiché avremmo dovuto sentirci per metterci d’accordo su questa faccenda, quindi io ingenuamente, sempre credendo che chi mi era di fronte fosse un vero poliziotto, gli porgevo la mia agendina ove era scritto il numero chiestomi, lo stesso dopo averlo letto me lo riconsegnava. (..).Terminato ciò, mi riaccompagnava dal mio ragazzo dicendoci che per questa volta avrebbe chiuso un occhio sulla faccenda e ci avrebbe lasciati liberi”.
Una vicenda che, sul finire del 2006, aveva condotto l’ufficiale agli arresti domiciliari, sostituiti, dopo pochi mesi, con l’obbligo di dimora in Calabria e Sicilia. Amendola ha affrontato dunque i tre gradi di giudizio da uomo libero (sospeso dal servizio), venendo condannato in primo grado a sette anni di reclusione (così come richiesto dal pm Musarò) nel maggio 2009. Una sentenza confermata sul finire del 2011 dalla Corte d’Appello di Reggio Calabria e divenuta definitiva iero, con la dichiarazione di inammissibilità del ricorso presentato dall’avvocato Lorenzo Gatto (subentrato in appello ad Armando Veneto e Grazia Volo). Ma Amendola è stato condannato anche per il reato di falso ideologico, in quanto, per garantirsi l’impunità, avrebbe redatto una relazione di servizio dai contenuti mendaci sull’accaduto.
Gli appostamenti effettuati dalla Polizia di Stato, coordinati dal pm Musarò, dimostreranno come le parti offese incontreranno, in luoghi diversi, l’ufficiale delle Fiamme Gialle, probabilmente per concordare una versione alternativa, che non mettesse nei guai Amendola. Colpevolezza, quella dell’allora Maggiore della Guardia di Finanza, dimostrata dall’accusa anche grazie alle testimonianze di una delle vittime che, nonostante avesse ricevuto il “consiglio” da parte di Amendola, di non sporgere denuncia, racconterà l’accaduto alla Polizia: “In quella sede – racconterà la donna ricordando uno degli incontri – abbiamo concordato la versione dei fatti che poi avrei riferito poche ore dopo in Questura. Anche in quell’occasione il finanziere è stato arrogante, diceva che io non potevo competere con lui. Ciò contribuiva ad accrescere la mia paura”.
Un percorso non facile, quello delle persone coinvolte nel caso: trovandosi di fronte un appartenente alle forze dell’ordine, infatti, temevano di poter essere “rovinate” in qualsiasi momento, qualora avessero disatteso il volere del proprio taglieggiatore. Amendola avrebbe fatto minacce abbastanza chiare evidenziando di essere “il nr. 2 della Guardia di Finanza di Reggio Calabria e Provincia” e che era “in odore di promozione”, in particolare stava per diventare “Tenente Colonnello” . Inoltre, Amendola avrebbe fatto riferimento all’importanza della sua famiglia e al fatto che i suoi prossimi congiunti erano degli alti Ufficiali delle Forze dell’Ordine. Per questo, evidentemente, i due fidanzati ritratteranno la prima versione, salvo poi ritornare al contenuto originale, quello che porterà alla condanna dell’ormai ex ufficiale della Guardia di Finanza.
fonte: il dispaccio
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