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Migranti a Ventimiglia: Respingimenti e abusi di polizia

Ogni giorno presso la frontiera franco-italiana decine di persone vengono respinte dalla Francia e rinviate in Italia, senza permettere loro di poter formulare una richiesta di protezione internazionale presso il paese transalpino. Ma come avvengono effettivamente questi respingimenti?

Le persone arrestate in Francia, che non dispongono di documenti validi per l’espatrio, vengono portate dai corpi di polizia francese presso l’ufficio della Paf (Police Aux Frontières) a Ponte San Luigi: qui vengono trattenute il tempo di identificarle e di notificare loro il “refus d’entrée”, un documento che dichiara la non ammissione della persona sul territorio francese. Questi documenti vengono spesso falsificati, riportando date di nascita errate in modo da poter “legalmente” respingere anche minori non accompagnati che dovrebbero invece essere presi in carico nel Paese in cui si trovano. Presso la Paf è allestita una zona d’attesa (ironicamente definita come “zone de mise à l’abri” ossia “zona di messa in sicurezza”): si tratta di container insalubri in metallo di 15mq, con bagni chimici e panchine di ferro, dove le persone vengono trattenute per varie ore, un tempo che supera di lungo le quattro ore ammissibili di privazione della libertà ammesse dal Consiglio di Stato. Chi viene arrestato dopo le 18.00 vi passerà l’intera notte. Durante questo tempo, nessun diritto di base viene rispettato: le persone non possono chiamare un avvocato/a, un o una interprete, un medico, non hanno la possibilità di formulare la volontà di richiedere l’asilo.

Spesso, non vengono dati acqua né cibo. In seguito al rilascio del “refus d’entrée”, le persone vengono rilasciate agli uffici di polizia di frontiera italiani, a qualche metro di distanza.

Qui, vengono identificate e rimandate in Italia, a piedi (ricordiamo che Ponte San Luigi si trova a una decina di chilometri da Ventimiglia, che a piedi si percorrono in non meno di due ore). Tutti i giorni, le persone incontrate in frontiera o a Ventimiglia ci raccontano delle condizioni infernali all’interno dei container e delle violenze subite durante gli arresti e i respingimenti. Le persone denunciano di essere trattate come animali, picchiate e brutalizzate dalle forze di polizia. Spesso si ravvisano furti da parte della polizia, di documenti (atti di nascita, recepissé) e di effetti personali. In inverno si battono i denti dal freddo, d’estate i container sotto il sole arrivano a temperature allucinanti. Questa condizione subita anche da donne, incinta o anziane, malat*, minori non accompagnati e va avanti dal 2015, quando la Francia ha chiuso le sue frontiere interne.

 

 

In questo periodo di pandemia globale la situazione è ancora più drammatica: nessuna norma sanitaria viene rispettata all’interno dei container, le persone vengono ammassate, senza possibilità di accedere all’acqua potabile, igienizzarsi e rispettare le distanze di sicurezza. Di solito, le persone che provano a lamentarsi si sentono rispondere che la Covid-19 non esiste. Al tempo stesso, dall’inizio dell’emergenza sanitaria vengono distribuiti dei fogli informativi con qualche misura minima da rispettare per limitare la propagazione del virus, che ovviamente non possono essere rispettate a causa delle condizioni strutturali di questi luoghi.

Negli anni abbiamo raccolto numerose testimonianze di cosa succede presso questa rotta e ancora oggi vogliamo diffondere le immagini di queste prigioni legalizzate. Numerose sono state le denunce e segnalazioni da parte di Ong e associazioni francesi e italiane rispetto all’esistenza di queste strutture.

Il prefetto delle Alpi Marittime è stato condannato tre volte per violazione del diritto d’asilo. In luglio scorso, il Consiglio di Stato francese ha sancito l’illegittimità del respingimento di un nucleo familiare da parte della polizia di frontiera, comunicando che “l’autorità amministrativa ha violato in modo grave e manifesto il diritto d’asilo, che costituisce una libertà fondamentale” rifiutando di registrare la domanda d’asilo e di esaminarla con le garanzie previste dalla legge nazionale. Ma sembra che questo non sia bastato per chiudere questi lager di stato.

Ringraziamo il lavoro svolto dai nostri fratelli e sorelle di Kesha Niya (sulla loro pagina si possono leggere report che vengono periodicamente pubblicati), con cui da anni collaboriamo a stretto giro: da ormai quasi due anni, esiste un presidio solidale presso la frontiera, non lontano dagli uffici di polizia, dove le persone possono riposare, bere e mangiare prima di riprendere il loro cammino: oltre il lavoro preziosissimo di raccolta dati, che altrimenti lascerebbe un potere totale alle statistiche istituzionali, questo luogo permette di incontrare tutte quelle persone che vengono respinte in queste condizioni disumane, prendendo parola e denunciando quello che subiscono quotidianamente sui propri corpi. Questo luogo fondamentale è soggetto alla repressione da parte della polizia italiana che periodicamente fa pressioni per smantellarlo, ma ha anche visto atti di sabotaggio da parte del vicinato che a due riprese, durante la notte, ha sparso delle feci sulle panchine presenti sul luogo.

Riportiamo qui sotto un’intervista fatta ad un ragazzo respinto in frontiera, incontrato il 21 luglio scorso:

«Siamo alla frontiera tra la Francia e l’Italia, nella città di Mentone, sono arrivato oggi, volevo passare. La polizia mi ha brutalizzato, mi hanno sbattuto la testa contro la porta del treno, volevano rompermi la testa, mi volevano anche rompere la mano, mi hanno brutalizzato in tutti i modi, hanno fatto entrare il gas [lacrimogeno], volevano ucciderci, eravamo sei o sette persone [nascoste nei bagni del treno], hanno fatto entrare il gas, stavamo per morire. Ecco quello che voglio dire, questa non è una buona cosa, noi siamo qui, non siamo degli animali, siamo esseri umani, abbiamo bisogno della protezione di tutti i paesi dell’Europa, non devono respingerci come se fossimo venuti qui per fare del male. Noi non siamo terroristi, siamo solo migranti alla ricerca della felicità. Non devono maltrattarci come se fossimo animali, siamo esseri umani, abbiamo bisogno della protezione e della sicurezza dell’Unione Europea. Ecco cosa volevo dire».

Progetto 20K

da DINAMOpress