C’è una geografia della violenza statale in grande estensione in tutto il pianeta. Qualcuno parla di guerra sistemica contro lavoratori, migranti, comunità indigene, contadini. Una guerra che cresce con la militarizzazione delle nostre società a cui ci stiamo abituando
di Raúl Zibechi da La Jornada. Traduzione per Comune-Info di Leonora Marzullo.
Il noto pedagogista Henry Giroux ha appena scritto un saggio sul suo paese, gli Stati Uniti, nel quale analizza le crudeli politiche neoliberiste e l’odio per la democrazia a partire dagli anni Settanta: «Al centro delle sue pratiche statali autoritarie e criminali c’è “una guerra sistemica contro i lavoratori, i giovani, i neri e i migranti, sempre più definita dall’aumento della violenza di massa e da uno Stato che punisce sia all’interno del paese che fuori». È evidente che una “guerra sistemica” contro i popoli deve andare di pari passo con la militarizzazione delle nostre società, un processo che stiamo sperimentando in tanti paesi e regioni dell’America Latina, così come nel resto del pianeta. L’importante è comprenderne la natura sistemica e non ciclica o legata a un determinato governo. Questo è il primo passo per poter capire perché non dovremmo scommettere sugli Stati, dal momento che sono proprio loro i responsabili del nuovo militarismo contro i popoli.
Giorni fa è uscito anche il saggio Sperimentare la militarizzazione. Il caso Wallmapu di Fernando Pairicán e Wladimir Martínez, in cui gli autori analizzano due anni di stato di emergenza nel territorio mapuche in Cile e le sue conseguenze sulle comunità. La prima cosa che sottolineano è che l’attuale fase di militarizzazione è cominciata durante il governo del neoliberista Sebastián Piñera e continua ad aumentare sotto il progressista Gabriel Boric. È una politica statale. La seconda cosa è che «questa militarizzazione non ha avuto effetti reali sulla riduzione del livello di violenza», secondo i numerosi dati forniti. Il suo costo è molto chiaro: «il sentimento di minaccia permanente che le comunità pagano». La presenza di carabinieri, polizia e ora anche dell’esercito nelle comunità mapuche non contribuisce a ridurre i crimini legati al traffico di droga, ma colpisce soprattutto i giovani che stanno creando nuove organizzazioni autonome radicali. Pairicán e Martínez assicurano che «i processi di militarizzazione sono una tattica di riorganizzazione territoriale che restringe i legami e le interazioni di quei gruppi o popolazioni sotto controllo, minacciando il modo in cui si relazionano, interagiscono e abitano il loro ambiente». Parallelamente, concludono, «è stato imposto un discorso che ha favorito nuovi tipi di razzismo basati su concetti come narco-terroristi e violenza, che hanno fomentato stigmi e pregiudizi nei confronti dei mapuche, giustificando allo stesso tempo il dispiegamento militare nella zona. Invece di essere una soluzione, questo modello, che possiamo chiamare democrazia coloniale violenta, è diventato un problema».
Impotente di fronte all’aumento esponenziale della violenza legata alla droga, lo Stato intende estendere la militarizzazione del territorio mapuche a nuove regioni e città.
In Perù, il 18 luglio è stato pubblicato un rapporto di Amnesty International sui massacri contro i contadini andini durante le proteste da dicembre 2022 a marzo 2023, intitolato: Chi ha dato l’ordine? Responsabilità della linea di comando per morti e feriti nelle proteste in Perù, che hanno causato 50 morti e 1.400 feriti. Tutti i dati forniti dal rapporto indicano la responsabilità della presidente Dina Boluarte, assunta dopo la destituzione e l’arresto del presidente Pedro Castillo, e degli alti ufficiali militari e di polizia. In un solo giorno, il 9 gennaio 2023, 18 persone sono state uccise e più di cento sono rimaste ferite all’aeroporto di Juliaca. Il rapporto evidenzia che la Polizia nazionale ha ricevuto l’ordine di “eliminare le barriere umane”, che i comandanti hanno descritto i manifestanti come “terroristi” e che hanno autorizzato l’uso di armi da fuoco di grosso calibro per affrontare «le forze avverse». Hanno affrontato la mobilitazione sociale con la logica della guerra per sterminare la parte avversaria. A un anno e mezzo dalle stragi non c’è giustizia. Raúl Samillan, presidente dell’Associazione dei Martiri e delle Vittime del 9 gennaio, descrive il regime come «una dittatura parlamentare», un punto che coincide con il saggio sulla militarizzazione del Wall Mapu.
La geografia della violenza statale è esattamente la stessa della violenza coloniale da cinque secoli, qualcosa che si ripete in tutta l’America Latina, dal Guatemala e Messico all’Argentina e Cile. È evidente che questa «guerra sistemica» è diretta contro le popolazioni indigene, i neri e i contadini. In passato per rubare oro e argento, ora per sgomberare territori e trasformare la vita in merce.
La geografia delle resistenze è la stessa della violenza coloniale ed estrattivista. La nostra sfida continua ad essere quella di espandere le geografie, i popoli e i settori sociali coinvolti nella resistenza al capitalismo. Non è facile. La militarizzazione ci impone dei limiti, minacciando la riproduzione della vita.
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