Minniti, un ministro “di servizio” agli Interni
Il nuovo ministro degli Interni Marco Minniti è stato il presidente dell’Icsa (Intelligence, Culture and Security Analysis), oggi presieduto dal gen. Tricarico. Si tratta di una fondazione che si occupa di intelligence e sicurezza, insomma uno di quei luoghi dove è naturale incrociare dirigenti dei servizi segreti, studiosi, giornalisti e parlamentari embedded, vertici militari.
Tra i membri del Consiglio Scientifico c’è anche (o c’è ancora) qualche figura inquietante come l’ex generale dei carabinieri Ganzer, condannato per gravi reati in primo e secondo grado e prescritto in Cassazione (grazie alla derubricazione di alcuni reati). Ma ci sono anche il consigliere dell’amministrazione Bush, Francis Townsed, o l’ambasciatore Usa presso la Nato, Kurt Volker. In pratica un think thank collaterale al mondo dei servizi di sicurezza interni e militari. La sede è nella stessa strada della direzione del PD, ma qualche civico più in là.
Dal 2013 Minniti non è più presidente dell’Icsa avendo avuto incarichi di governo nell’esecutivo di Renzi. Una collocazione che lo pone al riparo dalle indiscrezioni sul finanziamento da parte dei servizi segreti delle attività dell’Icsa, in particolare nel 2015, come denunciato da Il Fatto Quotidiano.
Minniti, due anni fa e in qualità di sottosegretario con delega ai servizi segreti, relazionò al Parlamento sui rischi che incombevano sul paese. “In Italia è alto il rischio che deriva dagli estremismi antagonisti”, evidenziando anche “la potenzialità dell’eversione di matrice anarco-insurrezionalista capace di infiltrarsi in manifestazioni di dissenso, come la mobilitazione No Tav“. Minniti nella sua relazione sottolineava che non vanno “sottovalutate” le potenzialità dell’eversione di matrice anarco-insurrezionalista, in grado di connotare “per il ricorso alla violenza” le rivendicazioni ambientaliste, per il diritto al lavoro e alla casa. In calo invece, secondo la minaccia brigatista: “La situazione di disagio sociale – diceva Minniti – non sembra in grado di attribuire nuova linfa a progetti eversivi di stampo brigatista, tuttora perseguiti da ristretti circuiti dell’estremismo marxista-leninista”.
Il sottosegretario ai Servizi ha poi parlato del ruolo dell’intelligence economico-finanziaria che è chiamata a confrontarsi “con una minaccia in grado di influire negativamente sulle prospettive di ripresa e crescita del nostro paese”. Sempre più importante in Italia diventa quindi la la sfida della “cybersecurity”.
Ma l’ultima sortita di Marco Minniti, prima di diventare ministro, è stata pochi giorni fa nell’aula dove si celebra il processo per Mafia Capitale in cui è stato convocato come testimone dall’avvocato di Carminati. In quella sede, Minniti ha smentito che Carminati “abbia avuto nel tempo o abbia oggi, rapporti con i servizi segreti italiani”. Ma alla domanda più specifica dell’avvocato di parte civile su che cosa intendesse Minniti per esclusione dei rapporti tra Carminati con i servizi segreti, Minniti ha risposto sibillinamente che “non risultano rapporti con le nostre tre agenzie operative”. L’avvocato insiste: “Esclude anche che Carminati possa essere stato fonte dei nostri Servizi?”. “Nel momento in cui dico che non ha avuto e non ha rapporti escludo anche che possa esserne stato una fonte informativa”.
Ma la ulteriore domanda se questi rapporti potessero esistere con settori dei servizi “deviati” rimarrà senza risposta per le obiezioni sollevate dalla difesa di Carminati e accettate dalla Corte.
Con un governo debole, un contesto di crisi economica forte e rabbia sociale crescente, Minniti al ministero degli Interni sembra dunque essere l’uomo giusto al posto giusto. Ne era stato viceministro nel primo governo dell’Ulivo, poi era diventato uno dei Lothar (il gruppo di consiglieri pelati di D’Alema) insieme a Rondolino,Velardi e La Torre. Da allora si è dedicato al mondo dell’Intelligence, un’area grigia, riservata e parallela per eccellenza.
Con un ministro così gli spazi di agibilità per i conflitti sociali dovranno essere mantenuti o aperti con i denti e le unghie.
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Il dossier Regeni in mano ad Alfano, il ministro che non vuole il reato di tortura
Per chi ha a cuore i diritti dei cittadini (tutti dovrebbero ma sappiamo che non è così) l’aspetto più raccapricciante della risoluzione della crisi di governo è l’approdo agli Esteri di Angelino Alfano noto alle cronache già per aver agito agli Interni come quinta colonna del regime kazaco in Italia. Nelle mani di Alfano finirà il dossier relativo a Giulio Regeni il ricercatore torturato e ucciso dai servizi segreti di Al Sisi, il dittatore a suo tempo sdoganato da Matteo Renzi come campione di democrazia e lotta al terrorismo.
”Ebbene Alfano è l’esponente politico che più si oppone alla ratifica della convenzione internazionale in attesa da 32 anni che dovrebbe introdurre nel nostro ordinamento la tortura come reato tipico del pubblico ufficiale. Alfano è in “buona compagnia”: la suo fianco ci sono alcuni sindacati di polizia che evidentemente per “lavorare” non possono fare a meno di certe pratiche e il Quirinale che tra Napolitano e Mattarella ha già concesso la grazia a tre agenti della Cia condannati per il sequestro dell’imam Abu Omar.
Alfano succede a Gentiloni traslocato a palazzo Chigi e che non ha avuto nemmeno il coraggio di dichiarare l’Egitto “paese non sicuro””. Nel frattempo gli affari con il Cairo vanno a gonfie vele, aumentano i voli verso le località turistiche e le autorità egiziane continuano a prendere in giro quelle nostrane che fanno finta di niente. Dopo Gentiloni… Alfano. Al peggio non c’è fine. Mai. Giulio Regeni. Chi era costui?
Frank Cimini da giustiziami