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In Myanmar la repressione uccide con armi italiane

Amnesty Italia, Rete Italiana Pace e Disarmo, Opal e Atlante delle Guerre spingono perché il ministro Di Maio risponda in Parlamento.

La scoperta che munizioni italiane sono state sparate in Myanmar contro i manifestanti e addirittura contro un’ambulanza, fa emergere ancora una volta le falle nella nostra legislazione. In particolare per le cosiddette «armi leggere», come pistole, armi sportive e da caccia. Infatti quelle che compaiono in molte foto provenienti dal Paese asiatico sono cartucce (non pallottole) calibro 12, che riportano chiaramente la scritta «Cheddite», il nome dell’azienda italo-francese di Livorno che produce proprio questo tipo di munizioni. Come è possibile che siano arrivate in mano alle forze dell’ordine o ai militari del Myanmar? Dal 1991 in Europa è in vigore un embargo verso quel Paese. Ricordiamo che la legge 185 del 1990, un’ottima legge, regolamenta solo le armi da guerra che per essere esportate devono seguire un iter autorizzativo molto approfondito per evitare che finiscano a Paesi in guerra o che non rispettano i diritti umani. Restavano fuori le «armi leggere».

E, infatti, nel passato sono finite in mano a polizie o gruppi paramilitari, soprattutto, sudamericani, sia pistole che fucili, anche a pompa, con cartucce molto potenti. Nel 2012 una riforma della 185 ha previsto che anche questo tipo di armi debba passare attraverso l’autorizzazione governativa se sono destinate a forze armate o di polizia. Ma se vanno a rivenditori privati l’autorizzazione della 185 non serve, e basta quella della Questura, sempre però evitando i Paesi sotto embargo. E infatti non risultano esportazioni verso il Myanmar. Ma solo quella dirette. La legge del 2012, infatti, non richiede di sapere se il rivenditore privato è l’utilizzatore finale. Il sospetto è, dunque, che ci siano triangolazioni, attraverso altri Paesi non vietati.

L’unica citazione dell’azienda livornese presente nelle Relazioni annuali al Parlamento sull’export militare si trova in quella del 2014 e riporta l’iscrizione nel Registro delle imprese autorizzate all’esportazione. Non risulta però poi alcuna richiesta di licenza da parte dell’azienda negli anni successivi, il che significa che tutte le esportazioni sono state effettuate con le procedure previste per le «armi leggere». «I bossoli ritrovati in Myanmar – osserva Giorgio Beretta, analista dell’Osservatorio sulle armi leggere Opal di Brescia – riportano l’anno di fabbricazione: il 2014. Da un’attenta analisi dei dati Istat sul commercio estero e del registro del commercio internazionale delle Nazioni Unite (Comtrade) emerge una interessante coincidenza: nel 2014 sono state spedite dalla provincia di Livorno, «armi e munizioni» alla Turchia per 363.961 euro.

E nello stesso anno dal «registro Comtrade risulta che sono state inviate dalla Turchia a Myanmar 46mila munizioni del valore di 223.528 dollari. È quindi possibile che una parte delle cartucce prodotte da una azienda di Livorno inviate in Turchia sia stata poi esportata da un’azienda turca a Myanmar».

Ma c’è anche altro, come denuncia Amnesty International. «Foto e video mostrano anche che la polizia ha accesso ad armi tradizionali meno letali, tra cui pistole al peperoncino e fucili caricati con proiettili di gomma prodotti dall’azienda turca Zsr Patlayici Sanayi A.S., che utilizza cartucce dell’azienda italo-francese Cheddite».

L’azienda turca potrebbe aver assemblato anche cartucce vere, per poi venderle al Myanmar, col marchio italiano. «Il 18 marzo abbiamo chiesto chiarimenti alla Cheddite – racconta Francesco Vignarca, della Rete Italiana Pace e Disarmo –: ormai sono passate due settimane e ancora non abbiamo ricevuto risposta. Questo ci fa pensare che qualcosa non quadri».

Antonio Maria Mira

da Avvenire