Da sempre, nel nostro paese, l’impegno istituzionale contro il femminicidio prevede risposte disorganiche e punitive, senza alcuna strategia strutturale di lotta preventiva al modello culturale e sociale che lo alimenta. Nella stessa logica si muove la proposta di introdurre un reato ad hoc punito con l’ergastolo: proposta illusoria e ingannevole che, per ribaltare il patriarcato, si appoggia su di esso e sul suo strumentario.
di Riccardo De Vito da Volere la Luna
Come ogni maschio, devo entrare con prudenza nel dibattito in ordine al femminicidio. Appartengo al lato dell’umanità che, sotto il profilo statistico e sociale, non deve temere. A essere a rischio non sono quasi mai il mio corpo e il mio modo di essere, la mia libertà, le mie scelte di mettere in piedi o abbandonare una relazione, un amore, una casa. Tutt’altro per quanto riguarda la donna. Sebbene le statistiche parlino di un decremento, in Italia (come in Europa) continuano a essere elevati i numeri di donne uccise perché donne. L’Osservatorio Nazionale Femminicidi Lesbicidi Trans*cidi NUDM, alla data dell’8 marzo 2025, registra 8 femminicidi, 3 casi in fase di accertamento, nonché 9 tentativi. Stiamo parlando del 2025. Non ho guardato le statistiche complessive degli omicidi nello stesso periodo, né so se siano già disponibili. Semplicemente, non mi interessano ai fini di questo discorso. È probabile che, nello stesso lasso temporale, il numero di uomini uccisi sia maggiore, ma non è questo il punto. Si uccide un uomo per debiti, per faida, per guerre di criminalità organizzata, per vendetta, per legittima difesa, per tanti altri moventi. Mai perché maschio.
La conseguenza di queste premesse dovrebbe essere un apprezzamento per il disegno di legge governativo finalizzato all’introduzione del delitto di femminicidio nel codice penale: un reato autonomo che, prima ancora di sanzionare, dovrebbe riconoscere il disvalore intrinseco dell’uccisione di donna basata sul movente della discriminazione, dell’odio, dell’asimmetria di potere maschio/femmina. Risponderà di femminicidio «chiunque cagiona la morte di una donna quando il fatto è commesso come atto di discriminazione o di odio verso la persona offesa in quanto donna o per reprimere l’esercizio dei suoi diritti o delle sue libertà o, comunque, l’espressione della sua personalità». Pena prevista: ergastolo automatico, senza se e senza ma (con possibilità di evitarlo solo in caso di riconoscimento di attenuanti, che determinano comunque pene automatiche: ventiquattro o quindici anni). Le medesime circostanze di commissione del fatto sono introdotte quale aggravante sostanziasa – da un terzo alla metà – per tutti i reati di codice rosso (lesioni, maltrattamenti e altri).
Nonostante il plauso con il quale la proposta è stata accolta da ampi settori della società e della magistratura – soprattutto quella meritevolmente impegnata a combattere le espressioni di una giurisprudenza che troppe volte ha reiterato cliché patriarcali – mi sento di sposare appieno il pensiero di quelle femministe (tra le prime Ida Dominjanni e Tamar Pitch) che hanno radicalmente contestato il disegno di legge. Una “polpetta avvelenata”, così l’ha definito Milli Virgilio, giurista e avvocata da sempre impegnata sul terreno della difesa delle donne colpite da violenza e discriminazione, non foss’altro perché ritaglia in modo aribitrario, con atto di imperio allineato alle visioni delle destre egemoni, il campo delle vittime: sarebbe tale, «in una logica rigidiamente binaria», solo la donna biologica, con esclusione di altre categorie discriminate, quali omosessuali e transgender (https://studiquestionecri minale.wordpress.com/2025/03/10/nominare-il-femminicidio-non-in-nostro-nome/). Le ragioni del dissidio sono profonde, politiche e giuridiche allo stesso tempo.
Una premessa è indispensabile. È da anni che, in Italia, l’impegno istituzionale per la riduzione del femminicidio si concentra su disorganiche risposte emergenziali e punitive, anziché su strategie strutturali di lotta preventiva al modello culturale e sociale di stampo patriarcale. Anche i fondi destinati alla prevenzione – aumentati nel periodo compreso tra il 2013 (approvazione della legge che ratifica la Convenzione di Instanbul) e il 2022, ma tornati a calare in maniera brusca nel 2023 – sono stati in gran parte investiti in misure di “risposta alla violenza già avvenuta”, rinunciando ad “agire strategicamente per prevenirla” (Prevenzione Sottocosto, ActionAid 2023). Nessuno spazio, dunque, per politiche educative di genere e a un’affettività consapevole, basata su ascolto, consenso e diritto all’integrità personale. Le ricerche qualitative sulla consapevolezza degli stereotipi di genere in ambito giovanile consegnano risultati sconfortanti. Le parole di Ursula K. Le Guin, consegnate al celebre Discorso per la consegna dei diplomi al Bryn Mawr (1986), suonano ancora terribilmente attuali: «Le nostre scuole e i nostri college, istituzioni del patriarcato, di solito ci insegnano ad ascoltare le persone che hanno il potere, uomini o donne che parlano la lingua padre; e ci dicono quindi di non ascoltare la lingua madre, le persone prive di potere, gli uomini poveri, le donne, i bambini: quello non va considerato un discorso valido».
La stessa scarsità di risorse e impegno si ritrova nel campo delle azioni positive per mettere in rete tutti i possibili operatori della prevenzione, da quelli sanitari ai Centri Antiviolenza, questi ultimi, peraltro, gravemente penalizzati a seconda della collocazione territoriale. Analogo discorso vale per il tema centrale delle azioni di empowerment, a partire dalla rimozione di quelle differenze – salariali prima di tutto – che frenano autonomia economica, emancipazione e autodeterminazione della donna (e impediscono, ad esempio, di avere un posto sicuro dove andare a vivere se si sceglie di denunciare il convivente). Un dato eclatane sulla persistenza delle gabbie del patriarcato: soltanto il 58% delle donne, in Italia, ha un conto corrente intestato personalmente (Global Thinking Foundation, 2023), nonostante sia noto quanto l’emancipazione e la sicurezza passino attraverso la possibilità di gestire autonomamente il denaro. Su un piano più basso, ma da non sottovalutare, persino i programmi (e gli strumenti) di autodifesa sono sconosciuti, pecepiti come a rischio di illegalità penale o sminuiti da una retorica che generalizza e distorce il concetto e la pratica della nonviolenza
A fronte di questa desolazione, la destra al governo si impossessa della lotta contro il patriarcato e getta sul tavolo l’ennesima risposta puramente repressiva: carcere a vita – automatico e sottratto alla valutazione del giudice – e tanta detenzione in attesa di giudizio. Possiamo raccontarci che verrà il tempo degli investimenti in prevenzione, ma intanto la norma assume il sapore di un’inversione di rotta. Di autonomia e controllo sulla propria vita da parte delle donne (come di altri soggetti discriminati) se ne riparlerà in un futuro che è sempre di là da venire. Intanto, ci si accontenti dell’ombrello della repressione e della deterrenza penale. Eppure, se c’è una cosa che ho imparato in anni di lavoro nella magistratura di sorveglianza e in sezioni di carceri dove sono detenuti uomini violenti, è che a spaventare il patriarcato non sono le pene lunghe, neppure il disumano buttare la chiave, ma l’azione delle donne messe in condizione di reagire, di non subire, di allontanarsi, di ribaltare con determinazione il rapporto di potere sui loro corpi.
Non intendo mettere in discussione la necessità della prigione quale momento di “arresto” e contenimento delle pericolosità più alte. Ma questa strada (pure con le lacune che un serio lavoro culturare all’interno della magistratura sta cercando di colmare) è percorribile ed è percorsa già oggi. Acuire la reperssione penale in modo indiscriminato costituisce una prospettiva illusoria e pericolosa.
Illusoria, perché il carcere italiano, salve poche e faticose eccellenze, non contiene un briciolo di seria prospettiva educativa a una relazionalità consapevole. Basti pensare che, salvo in rarissimi casi (inferiori al 10%), i momenti trattamentali intramurari comuni tra donne e uomini, negli Istituti misti, sono di fatto ostacolati, se non vietati, dall’istituzione. È in quelle occasioni che si dovrebbe mettere alla prova la crescita della personalità del condannato, ma quasi sempre l’unica relazionalità che il detenuto vive durante la sua pena è proprio il riprodursi del rapporto asimmetrico con la vittima. La separazione del carcere, tendenzialmente, non riesce a rieducare il colpevole, ma spesso fa rientrare nei ranghi la vittima. Quanti “pentimenti” per la denuncia hanno sentito i magistrati di sorveglianza! Quanti sentimenti di colpa per la condanna, accompagnati da richieste della famosa seconda chance! Quante domande di accessi in Istituto per prendersi cura dell’uomo che ha sbagliato, ma, in fondo, ha dimostrato di amare! Nel carcere di oggi – carente di personale non custodiale e, dunque, non in grado di sorreggere proposte (ri)educative degne di questo nome – continuano a plasmarsi immaginari in cui la donna rimane, per chi aspira a tornare in libertà, un “oggetto di fruizione”, con piena perpetuazione della logica che è alla base della violenza. Messi da parte gli esempi di donne che tornano sui passi sbagliati, va detto che, contro questo modello di carcere, tante donne hanno lottato: le “donne ai cancelli” collettivamente organizzate, le donne del “salto dei banchi” hanno condotto una battaglia per sé e per i compagni detenuti. Se non si cambia questo modello di pena, dove si pensa di andare con la strada della minaccia del carcere?
Ingannevole poi, l’idea che l’ergastolo, anche nelle sue modalità più drastiche, possa agire quale efficace controspinta crimonosa. Se volessimo ragionare soltanto dell’aspetto utilitaristico, vanno ricordati i fiumi di giuste parole scritte sul tema. Le ultime, tra le più importanti – diffuse alle nostre latitudini dall’impegno di un giurista militante contro l’ergasolo, Davide Galliani –, sono quelle contenute nel libro di Ashley Nellis e Celeste Barry, The Scope and Impact of Life and Long Term Imprisonment in the United States (2025): il sistema giuridico penale americano ha sviluppato una dipendenza dall’ergastolo – circa 200.000 ergastolani, una persona detenuta su sei –, ma questa non è servita a costruire una risposta efficace alla sicurezza pubblica. Nessuna deterrenza, tanta disumanità gratuita. La conferma empirica può venire dal nostro sistema e da uno sguardo al trattamento guidiziario del femminicidio. La stampa è generosa nel riportare le notizie di condanne all’ergastolo comminate, anche in tempi celeri, per uccisione di donne. A mancare, nel nostro Paese e nel tempo attuale, non è la severità della reazione, ma l’effettiva possibilità di intercettare il disagio prima che esploda.
A cosa si rivela oggettivamente funzionale, dunque, l’intervento normativo che dà il nome al crimine di uccisione di donna e lo punisce con un castigo sempre più disumano?
Come detto, non pare possa accreditarsi – auspicando di essere smentiti – l’efficacia deterrente. Molti uomini si uccidono dopo aver ucciso: basta questo dato per raccontare l’irreale percorribilità delle strada della paura indotta dalla sanzione estrema. A rimanere sul campo sono gli effetti deleteri: la definitiva abdicazione a una giustizia trasformativa, comunitaria, sociale prima che giuridica, riparativa e la riedizione dell’ergastolo nel suo aspetto peggiore, in un periodo storico in cui l’impengno dei giuristi e le lotte abolizioniste erano riusciti finalmente a eroderne le forme più drastiche. L’ennesimo ergastolo previsto dal nostro sistema non può passare in silenzio: fa parte della norma tanto quanto il precetto e credo si possa (si debba) dire allo stesso tempo no al femminicidio e no all’ergastolo. Anche perché il femminicidio, quale fenomeno emergenziale, diventa automaticamente terreno di sperimentazione, di incubazione di pratiche poi difficili da contrastare. In questo crescendo di risposta puntiva, favorito da culture e politiche che esibiscono la crudeltà (America first, è il caso di dire) è lecito porsi una domanda che mette i brividi: se l’ergastolo automatico non dovessere rivelarsi efficace, quale sarà la prossima tappa?
Mi preme, poi, sottolineare un aspetto particolare, quello legato alla delega al monopolio giudiziario della lotta al patriarcato. Non mi convince l’idea che, per cambiare la cultura delle magistrate e dei magistrati italiani sui termini reali del femminicidio, fosse necessario introdurre una norma così concepita. Sono convinto che la cultura della magistratura si possa modificare, oltre che attraverso un instancabile impegno nella formazione, solo ottenendo il cambiamento della cultura diffusa del Paese, dei quadri di mentalità. In questo senso, la norma costruisce un potente meccanismo simbolico di affidamento al giudiziario e ci rende tutti meno responsabili. In un bel libro abolizionista e femminista (Per tutte quante. Donne contro la prigione, 2022), Gwènola Ricordeau, a proposito dell’efficacia satisfattoria degli strumenti giuridici, citava Nils Christie: «il sistema penale deruba gli individui del loro conflitto» (il passo è citato anche nella recensione di Roberto Bezzi al libro, in Questione Giustizia, 4 febbraio 2023). È il tema del “malinteso della vittima”, centrato da Tamar Pitch: se alla coppia oppressa/oppressore si sostituisce la coppia vittima/colpevole, il problema del femminicidio sarà sempre un problema individuale e non sociale, risolvibile non attraverso il conflitto sociale e la costruzione alternativa di sistemi di relazioni, ma con una buona dose dei tradizionali strumenti patriarcali di repressione. L’unica “criminologia dal basso” che continuerà a generarsi è quella patibolare del carcere a vita, del tifo per le condanne e dello scandalo per le assoluzioni, con il conseguente aumento delle difficoltà della magistratura di crearsi una cultura e di risposte scevre dai condizionamenti. La donna, nel frattempo, rimane relegata allo status di vittima, tranquillizzante e perenne (nella legge non c’è uno straccio di sostegno alle vittime).
Appoggiarsi al patriarcato per ribaltarlo, è qui la contraddizione più grave. Ecco, tornando alla questione dei nomi e alla metafora della lingua madre, mi sembra che in questo caso, si sia compiuto un tradimento: si è pensato di accogliere festosamente una lingua madre, ma si è scirtta una pagina triste di lingua padre.
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