Condannati in primo e secondo grado nel processo «Agaish», ma «il fatto non sussiste». Le avvocate della difesa: «Abbiamo sempre detto che erano esclusivamente condotte di solidarietà»
di Giansandro Merli
La Cassazione ha annullato senza rinvio le condanne a G. Afewerki, G. Abraha, M. Hintsa e G. E. Kidane perché il fatto non sussiste. I quattro cittadini eritrei erano stati giudicati colpevoli in primo e secondo grado per favoreggiamento dell’emigrazione clandestina nel processo «Agaish», che in tigrino vuol dire «ospite», con pene comprese tra i due anni e i tre anni e mezzo di reclusione. Si tratta dell’ultima propaggine di una maxi-inchiesta avviata nel 2014 e segnata dallo scandalo internazionale di uno scambio di persona.
L’IPOTESI da cui otto anni fa muovono gli inquirenti è l’esistenza di un’organizzazione transnazionale dedita al traffico di esseri umani che organizzerebbe i viaggi dal Sudan fino ai paesi scandinavi, attraverso Libia, Mediterraneo e Italia. A capo del sodalizio criminale Medhanie Yedhego Mered, «il generale». La procura di Palermo pensa di averlo tra le mani dopo il trasferimento in Italia di un uomo arrestato in Sudan il 24 maggio 2016 con un’operazione di polizia internazionale coordinata dai pm siciliani. In realtà c’è stato uno scambio di persona su cui si apre uno scontro tra le procure di Roma e Palermo. La Corte d’assise del capoluogo siciliano dà ragione al difensore dell’uomo, l’avvocato Michele Calantropo, e riconosce che dietro le sbarre è finito in realtà Medhanie Tesfamariam Behre. Scagionato dall’accusa di essere uno dei trafficanti più ricercati al mondo, Behre riceverà una condanna in primo grado per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Avrebbe aiutato alcuni parenti a raggiungere l’Italia.
ALL’INTERNO dell’inchiesta principale si ipotizza che nella capitale esista una cellula dell’organizzazione che cura il transito dei migranti dal luogo di sbarco ai paesi di destinazione, in genere quelli scandinavi. Il capo sarebbe Hagos Awet, che viene arrestato insieme a una decina di presunti complici. Nell’appello del suo processo, con il rito abbreviato, Awet viene dichiarato innocente e dunque l’ipotesi dell’associazione per delinquere finalizzata all’immigrazione clandestina cade anche per gli altri imputati. Intanto i quattro cittadini eritrei assolti ieri e un quinto che era stato prosciolto in primo grado hanno trascorso 18 mesi di carcere preventivo giustificato proprio dall’accusa di associazione. Sono difesi da quattro avvocate – Raffaella Flore, Giuseppina Massaiu, Tatiana Montella e Ludovica Formoso – che hanno scelto di procedere con il rito ordinario.
SMENTITO il teorema associativo restano le accuse di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina per l’acquisto di biglietti di autobus diretti a Roma o il prestito di modiche quantità di denaro a connazionali arrivati da poco in Italia. O ancora per l’ospitalità offerta in case, baracche o palazzi occupati come quello di piazza Indipendenza, nella capitale, poi sgomberato il 19 agosto 2017. È appurato che gli imputati non hanno tratto alcun vantaggio economico da queste condotte, ma secondo l’articolo 12 del Testo unico sull’immigrazione non è sufficiente. Introdotto dalla Turco-Napolitano (1998) ed esteso agli spostamenti verso altri Stati dalla Bossi-Fini (2002), il favoreggiamento di immigrazione o emigrazione illegale è punibile anche in assenza di profitto. È su questa base, che nessun governo ha mai voluto modificare, che negli anni sono fioccate decine di procedimenti contro attivisti solidali e cittadini migranti.
NEL PROCESSO AGAISH le difese sostengono che le azioni degli imputati non sono mai state dirette a favorire il transito dei connazionali verso altri paesi europei, ma solo spostamenti all’interno del territorio italiano. E poi contestano che normali pratiche di solidarietà, peraltro tra persone in fuga da un regime sanguinario e spesso provenienti dagli stessi villaggi o legate da vincoli di parentela e amicizia, possano costituire reato. «La decisione della Corte di Cassazione dimostra ciò che le difese, anche grazie al lavoro di consulenti e mediatori, hanno sempre sostenuto: si trattava esclusivamente di condotte solidali», dice l’avvocata Massaiu. «La prima volta che ho incontrato il mio assistito nel carcere di Rebibbia faticava a capire perché l’aiuto ad alcuni suoi connazionali fosse considerato un crimine dal diritto italiano. Era incredulo, non riusciva a spiegarsi di cosa fosse accusato», afferma l’avvocata Montella.
LA VICENDA ASSOMIGLIA a quella che il 3 maggio scorso ha portato all’assoluzione di Andrea Costa e altre due attiviste di Baobab Experience. Anche in quel caso l’inchiesta era stata aperta per associazione a delinquere senza portare a nulla. E anche in quel caso le accuse sono state successivamente ricalibrate sul favoreggiamento senza lucro.