Indagine aperta dal procuratore generale Sadeq su chi uccise i cinque egiziani accusati della morte di Giulio Regeni. Ma ora c’è da capire per conto di chi hanno agito.
Quasi 1.100 euro di cauzione, 20mila sterline egiziane, e Azza Soliman ha visto aprirsi la cella del carcere: l’attivista per i diritti delle donne, fondatrice del Center for Egyptian Women Legal Assistance, era stata arrestata mercoledì nell’ambito del caso che vede coinvolte decine di ong accusate di aver ricevuto illegalmente fondi esteri.
È libera ma le accuse non cadono rientrando nel più complesso piano repressivo che vede coinvolti presidenza, Ministero degli Interni e esercito, con i rispettivi servizi segreti. Su di loro si focalizza da mesi l’indagine della Procura di Roma, impegnata nel difficile caso Regeni. Difficile a causa dei numerosi insabbiamenti e la scarsa collaborazione da parte delle diverse e parallele autorità egiziane, ma che negli ultimi giorni ha vissuto una piccola svolta.
Durante l’incontro di martedì e mercoledì a Roma il procuratore generale egiziano Sadeq ha consegnato ai pm Colaiocco e Pignatone due ingenti verbali: uno relativo alle dichiarazioni dei poliziotti che il 24 marzo uccisero cinque egiziani accusandoli della morte di Giulio; e l’altro a quelle di Mohammed Abdallah, torbida figura che da mesi ruota intorno al caso, il capo del sindacato degli ambulanti che avrebbe attirato le attenzioni della polizia sul giovane ricercatore (o che, viceversa, sarebbe stato usato dai servizi).
Sono emerse così le identità degli agenti del National Security Agency, l’ex Ssis sotto il Ministero degli Interni, che avevano indagato su Giulio fino al 22 gennaio, non al 10 come precedentemente detto. Ma soprattutto arriva la notizia di un’inchiesta da parte della procura generale su due poliziotti che a fine marzo massacrarono di pallottole cinque egiziani per poi imbastire lo show del ritrovamento dei documenti di Giulio nella casa di uno di loro.
Altre cinque vittime innocenti, sacrificate per dare in pasto all’Italia una verità di comodo. Ora Il Cairo indaga su di loro. Si dirà, normale che accada visto che gli stessi inquirenti egiziani hanno ammesso l’innocenza dei cinque. Non così normale nell’Egitto dell’impunità di polizia, esercito e servizi. Ora c’è da superare un altro ostacolo: quello che i due facciano da capro espiatorio in un’altra verità di comodo. Una simile messiscena non è il frutto di due semplici poliziotti, ma di una mente di più alto livello nella piramide del potere egiziano.
In queste ore la procura di Roma è impegnata nell’opera di traduzione dei due faldoni consegnati da Sadeq. Ci sono anche i tabulati telefonici dei cinque agenti della Nsa che seguirono il file Regeni dopo la denuncia di Abdallah e di un cellulare dello stesso sindacalista che svela un’ultima telefona, appunto il 22 gennaio, al centralino della Nsa a Nasr City.
Ci vorrà tempo e altri incontri (l’Egitto non ha ancora consegnato le immagini delle telecamere di sicurezza), ma la speranza è di individuare qualche indizio in più, un elemento nuovo – sfuggito alla probabile opera di pulizia di Ministero degli Interni o servizi – che indichi la via che porta ai mandanti politici della barbaba morte di Giulio. Che porti a chi ordinò di proseguire le indagini fino al 22 gennaio e a chi – documenti di Giulio alla mano – li fece nascondere a casa di Tareq Saad Abdelfattah, poco prima che venisse crivellato di colpi nel suo furgone insieme a quattro parenti.
Questo è l’Egitto di al-Sisi, un mix di repressione impunita, crisi economica e violenza. Ieri un altro attentato ha colpito Giza al Cairo: sei poliziotti sono morti ad un checkpoint per l’esplosione di una bomba. A rivendicare l’attacco è stato il movimento Hasm, gruppo relativamente giovane che secondo le autorità egiziane è legato ai Fratelli Musulmani.
Hasm non ha dato indicazioni sulla propria ideologia o appartenenza, ma ha più volte dichiarato di agire contro coloro che detengono in prigione o condannano a morte migliaia di persone (aveva rivendicato a settembre i tentati omicidi del procuratore Abdel Aziz e dell’ex muft Ali Gomaa).
Secondo altre fonti del Ministero degli Interni, invece, il responsabile è Ajnad Misr, gruppo jihadista legato all’Isis. Di diverso, rispetto al passato, c’è il luogo dell’attentato: simili attacchi a checkpoint e membri delle forze armate avviene generalmente nella Penisola del Sinai. Questa volta si sono avvicinati al cuore della capitale.
da il manifesto