In Rojava così come in Bakur e Rojhilat, nelle aree tribali dell’India, nelle Filippine o in Colombia è diventato praticamente impossibile tenere il conto del numero di quanti (militanti, dissidenti, prigionieri, semplici cittadini…) vengono quasi quotidianamente ammazzati (ma anche torturati, sequestrati, violentati…) in conflitti che solo per comodità possiamo definire a (relativamente, molto relativamente) bassa intensità. E ovviamente tra i primi della lista troviamo la Palestina.
di Gianni Sartori
Tra le ultime vittime, il giovane (19 anni) Qusai Jamal Matan ucciso durante gli scontri del 4 agosto nei pressi del villaggio di Burka (regione di Ramallah, Cisgiordania).
Colpito al collo da una pallottola (presumibilmente il colpo proveniva da alcuni sionisti della colonia di Oz Zion), era stato portato all’ospedale, ma inutilmente.
Sempre in Cisgiordania, poche ora prima, all’alba, le forze di sicurezza israeliane avevano ucciso un altro giovane nel campo per rifugiati di Nour Shams nei pressi di Tulkarem.
I militari erano entrati nel campo per un rastrellamento, ufficialmente alla ricerca di latitanti, suscitando le proteste della popolazione. Oltre a lacrimogeni e granate assordanti antisommossa di vario genere, gli israeliani avevano fatto ampio uso di “fuego real”.
Colpito al capo, presumibilmente da breve distanza e intenzionalmente, Mahmoud Abu Sa’an (uno studente di 18 anni) veniva trasportato all’ospedale Martyr Thabet Thabet dove i medici non hanno potuto far altro che constatarne il decesso.
Stessa sorte per Faris Abu Samra (14 anni) ucciso durante gli scontri tra esercito israeliano e palestinesi nel corso di un’operazione condotta nella città di Qalqilya (Cisgiordania) nella notte tra il 26 e il 27 luglio.
Il 21 luglio nel villaggio di Umm Safa (non lontano da Ramallah) un esponente della polizia di frontiera sparava con un’arma da guerra a Muhammad al-Bayed, un ragazzo di 17 anni proveniente dal campo per rifugiati di Jalazoun.
Erano in corso scontri tra giovani palestinesi (armati di pietre) e forze dell’ordine israeliane che avevano fatto uso di granate lacrimogene. Qui si svolgono ogni settimana manifestazioni contro le colonie israeliane e per protestare contro i ripetuti raid dei coloni sui villaggi palestinesi.
Il giorno successivo (sabato 22 luglio) era stata indetta una protesta con partenza dal campo profughi di Jalazoun.
Il corteo si era appena avviato dopo i funerali di Mohamed al-Bayed quando, nei pressi della colonia “Beit El” (sorta praticamente a ridosso del campo profughi) scoppiavano i primi incidenti.
Da parte dell’esercito israeliano venivano impiegate senza risparmio granate assordanti, granate lacrimogene e pallottole di gomma (in realtà di metallo ricoperte di plastica).
Tra i manifestanti palestinesi si registravano numerosi feriti e ancor più numerosi casi di problemi respiratori.
Tra i feriti, almeno due- colpiti alla testa – risultavano in gravi condizioni.
E il triste rosario a ritroso potrebbe continuare, più o meno con lo stesso copione.
Quanto ai prigionieri palestinesi è di oggi (8 agosto) la notizia che sono riprese le proteste contro la detenzione amministrativa. Una forma arbitraria di prigionia senza accuse e senza processo. Più di un quinto dei prigionieri palestinesi (circa 1132 su oltre cinquemila) versano in questa situazione. Una sorta di limbo carcerario senza prospettive in quanto rinnovabile praticamente all’infinito.
Contro tale abominio giuridico cinque detenuti sono entrati in sciopero della fame e decine di altri hanno intrapreso altre forme di protesta.
Tra gli hunger strikers, Kayed Fasfous (in sciopero dal 4 agosto) insieme a Salah Rafaat Rabaya, Saif Qassem Hamdan, Qusay Jamal Khader e Osama Maher Khalil (in sciopero dal 31 luglio).
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