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Parole come proiettili nel discorso sull’immigrazione

Falsità e travisamenti concettuali nella narrazione dominante dei flussi migratori. La verità non conta, non porta voti

Quanta violenza c’è nel discorso sull’immigrazione? Per discorso intendo un’accumulazione di termini, idee, conversazioni, prassi, azioni concertate e azioni automatiche dello stato e delle strutture democratiche, inclusi i mass media. Tutti assieme, nel corso del tempo, creano un corpo fluido e multiforme che pervicacemente avvolge tutto quello che incontra.

Il discorso è potere, perché penetra le (in)coscienze e trascina le azioni verso una direzione.

Il discorso è violenza, perché non rispetta ambiti e pertinenze. Si muove al passo della tecnologia informativa, che nell’era dei social media non accetta silenzi né tantomeno riconosce riguardi. Non deve stupire se il discorso prende le forme dell’imprevisto, perché è quello il suo segreto, la sua forza. Il discorso non si fa solo attraverso le parole urlate del politico di turno abbonato alla poltrona degli studi televisivi. Il discorso si manifesta, e si rinnova continuamente, nell’espressione spontanea del cittadino in tutt’altro affaccendato, o dell’esperto che offre opinioni sui temi più diversi.

Un esempio? Il 19 novembre il Corriere della Sera pubblica un intervento in favore del referendum costituzionale a firma di Franco Bassanini, già ministro per la funzione pubblica nei governi Prodi e D’Alema. Non mi interessa qui discorrere del SI o del NO al referendum. La cosa che mi ha colpito in quell’articolo è il riferimento sfuggevole al tema dell’immigrazione. Con l’intento di sostenere le ragioni di una maggiore concentrazione di potere nelle mani del governo (è per la stabilità, ça va sans dire!), Bassanini offre un’analisi storica degna di nota. I tempi son cambiati, dice Bassanini e così le migrazioni. Nelle sue parole: “Le migrazioni avvenivano allora per lo più dall’Europa verso le Americhe; oggi invadono l’Europa come effetto dell’esplosione demografica africana e della crisi demografica del Vecchio continente”.

Ecco, le parole. Le parole e le cose. Invadono. Le migrazioni non sono spostamenti di persone che per le ragioni più diverse si muovono da un punto all’altro del pianeta. Sono invasioni. Eppure nel 2015 l’Italia, per la prima volta in cent’anni ha registrato un saldo demografico negativo. Sono più numerosi coloro che emigrano di quelli che immigrano, e fra quelli che lasciano il paese crescono di numero i figli di immigrati o gli immigrati stessi che hanno acquisito la cittadinanza. Invasione? La Potenza del discorso pubblico popolare. Cosa opporre a tale messaggio tossico utilizzato in forma di “fatto”, accidentalmente? Ma non c’è solo l’invasione in questo travisamento concettuale. Nella visione di Bassanini, riflesso del discorso pubblico popolare, le migrazioni hanno una sola causa: l’esplosione demografica africana. Non c’è spazio per la realtà nel discorso onnivoro sull’immigrazione. La verità è una chimera. Non conta. Non porta voti. Anche per questo è giusto insistere e provare a ragionare contro la corrente del discorso dominante.

Quindi: c’è solo la crescita demografica dell’Africa a motivare le migrazioni contemporanee? Tutt’altro. Secondo i dati elaborati dall’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati, la maggioranza dei migranti arrivati in Italia attraverso il mare nel 2016 sono originari di paesi quali Nigeria, Gambia, Somalia, Eritrea, Guinea. Tra le cause maggiori delle migrazioni dalla Nigeria l’Unhcr identifica la guerra intestina provocata da Boko Haram, ma non andrebbe dimenticata l’espropriazione occidentale della maggiore risorsa nigeriana, il petrolio. Da anni le ricchezze dell’oro nero vengono spartite tra le grandi sorelle dell’industria petrolifera e le élite corrotte delle paese. Senza dire che l’industria petrolifera provoca una perenne emergenza ambientale, come denunciato a suo tempo da Ken Saro-Wiwa. E che dire di Somalia ed Eritrea, il primo un paese non-stato dilaniato da decenni di guerra, il secondo un paese controllato dalla dittatura ultraventennale di Isaias Afewerki? L’occidente non può dirsi neutrale nella genesi delle crisi di questi paesi perché ha giocato un ruolo storico nel destabilizzarli, prima conquistandoli con la forza, definendone le cartografie, e poi sfruttandone le risorse per decenni. Si può dire lo stesso del Gambia, un paese dove il clima di paura creato dal regime di Yahya Jammeh ha alimentato il senso di sfiducia delle giovani generazioni, che costituiscono la maggioranza dei migranti. Dai dati Unhcr risulta anche che tra i primi cinque paesi di provenienza dei richiedenti asilo nel 2015 figuravano il Pakistan e il Bangladesh, certamente non paesi africani. Come si può allora ricondurre il movimento migratorio semplicemente alla “esplosione demografica” dell’Africa, come fa Bassanini?

Anche il termine “esplosione” merita attenzione. Esplosione è un termine che trasmette un senso di cambiamento brusco e violento. Perché usare questo termine per un fenomeno, la tendenza demografica del continente africano, che è tutto meno che una sorpresa? Da almeno quindici anni l’Africa subsahariana è caratterizzata da una crescita demografica dovuta essenzialmente, secondo la Banca Mondiale, alla riduzione della mortalità infantile, riflesso dei miglioramenti nelle condizioni di vita, inclusa la sanità pubblica, avvenuti nell’arco di alcuni decenni.

Perché allora esplosione? Esplosione e invasione non sono semplici parole. Inserite nel discorso sull’immigrazione sono proiettili sparati da uno strumento di offesa, uno strumento di guerra. Chi le usa dovrebbe esserne pienamente cosciente. Evidenziarle quando vengono usate nei contesti più disparati è un piccolo dovere civico al quale non possiamo sottrarci.

Max Mauro da il manifesto