Peppino Impastato: il suo impegno e il suo ricordo per cambiare la società.
- maggio 09, 2011
- in riflessioni
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Il 9 maggio 1978 veniva ucciso, dalla mafia, Peppino Impastato attivista di Democrazia Proletaria. Il Potere aveva relegato Peppino in un cono d’ombra; l’ha indicato, dal 1978 fino al 2001, come un “terrorista”, favorito dal clima creato dall’uccisione di Aldo Moro.
Vi è, allora, anche un aspetto istituzionale, anzi di morfologia del potere da ricordare: per insabbiare la verità sull’uccisione di Peppino, che i suoi compagni subito gridarono e coraggiosamente pretesero, è stato organizzato da settori politici, dei carabinieri, della magistratura, un infame, colossale “depistaggio”. Ci sono voluti 23 anni, perché sentenze e relazioni parlamentari accertassero che l’uccisione di Peppino configurava un delitto politico-mafioso di grande rilievo.
Oggi quella dell’antimafia è divenuta un’etichetta utile a tutti: istituzioni, partiti, aziende ed associazioni fanno a gara per accaparrarsi il bollino della legalità. Ma cosa è oggi la legalità? Quale processo ha permesso ad un concetto quale quello di “legalità”di divenire la bandiera di un presunto movimento di opposizione quale quello genericamente definito “movimento antimafia”? Se il termine “legalità” è palesemente connotato dall’attuale sistema di potere che identifica lo Stato-legislatore come unico beneficiario della possibilità di definizione di ciò che è legale e ciò che è non, sarà ancora lo Stato l’unico attore in grado di sconfiggere l’apparato mafioso e imporre le sue leggi?
Nel dizionario della lingua italiana per legalità si intende:
1- carattere di ciò che è legale, conforme alle disposizioni di legge;
2- condizione fissata dalla legge: restare nell’ambito della legalità.
La legalità è derivata e declinata nelle sue varie forme dallo Stato, perché la Legge è definita dallo Stato; ci troviamo così di fronte ad un cane che si morde la coda: la legge è lo strumento per antonomasia che il potere si da per garantirsi la riproduzione sociale, ma nonostante questa peculiarità immutabile, l’unica risposta che il “movimento antimafia” è capace di darsi come soluzione di cambiamento radicale della società meridionale e nazionale è la riproposizione estenuante del binomio magistratura-legalità, cioè del potere stesso. Le misure puramente repressive non possono in alcun modo cancellare il fenomeno mafioso la cui necessità sociale, economica e politica garantisce il continuo riformarsi delle gerarchie criminali. Le centinaia di arresti continuamente spacciati dalla propaganda ufficiale come segno di una supposta vittoria sono mera rappresentazione di un teatrino opprimente per la nostra terra. Crediamo sia giusto sottolineare un aspetto centrale: a guardare la composizione sociale del nostro territorio, la sua storia e le sue lotte, riconosciamo anche noi che molto spesso, dietro la richiesta di legalità si nasconda un’immediata (ma superficiale) forma resistenziale (e di lotta) ad un potere che in Italia, più che altrove, ha mostrato grande arbitrarietà rispetto ai proprio ordinamenti giuridici; una voglia di cambiamento che però, rispondendo proprio alle sollecitazioni del potere stesso che si vuol combattere, adagiandosi sui suoi strumenti oppositivi e sul suo linguaggio, finisce inevitabilmente per essere più funzionale che conflittuale ed antagonista al sistema stesso. Per cui, chi grida alla legalità, sostiene un concetto che è al contempo legge e controllo, è Stato e appiattimento sociale, è filosofia della conservazione e antirivoluzione per definizione. In questo senso va anche visto il ruolo ricoperto dalla venerata e osannata Magistratura; affidare ai tempi (e ai fini) della magistratura i tempi della lotta è l’errore più grande in cui i movimenti di opposizione possano cadere; il potere giudiziario in quanto tale è potere politico a tutti gli effetti e in questo purtroppo Berlusconi ha ragione) con precisa funzione sociale: “tale questione non ha nulla a che fare (come talvolta si vuol credere) con la supposta esistenza di buoni o cattivi giudici, di una magistratura corrotta che si oppone ad una di onesti funzionari al servizio della giustizia. La questione è il ruolo che l’apparato giudiziario e repressivo dello stato riveste nell’economia generale dell’abnorme macchina governamentale che disciplina ed organizza le nostre vite. Questo ruolo, recitato con estrema disciplina, è il ruolo del conservatore dello status quo, del mantenimento dell’ordine e della disciplina, è il ruolo di chi giudica e punisce chiunque da quell’ordine si allontani, il ruolo che magistratura e polizia hanno è, in estrema e brutale sintesi, quello di permettere, al potere attualmente dominante, di dispiegarsi in tutta la sua arrogante violenza e di generare tutto l’orrore di cui è capace”.Sostenere la magistratura “adognicosto” significa in ultima istanza mettere il ruolo della legge in primo piano rispetto alla legittimità delle lotte sociali e delle forme di antagonismo che, spontaneamente o meno, si danno nei territori. E ciò significa purtroppo difendere lo staus quo dal cambiamento reale e materiale della nostra terra. Processo dirimente è quindi l’immediato abbandono di una visione dualistica e di contrapposizione tra stato e mafia. Lo dimostrano gli eccidi di Giardinelli e Lercara commissionati direttamente da Crispi; lo dimostrano gli omicidi di quadri proletari, sindacalisti e capi contadini nel primo-dopoguerra; lo dimostra ancora l’eccidio miserabile di Portella della Ginestra, ordito dai più alti vertici del capitalismo globale e nazionale; lo dimostra la morte di Peppino Impastato, impegnato contro le lobbies affaristiche costituitesi dietro la costruzione dell’aeroporto di Punta Raisi a cui erano legati i vertici della Democrazia Cristiana meridionale e non solo; e la lista potrebbe continuare ancora a lungo. Affidare allo Stato Italiano, lo “Stato delle stragi” e della repressione violenta e antidemocratica di tutti i movimenti rivoluzionari che la storia ha saputo esprimere e lasciarci in eredità, vuol dire consegnare il ricordo di Peppino ai suoi infami assassini.
Un esempio ne è il fatto che nelle scorse settimane Roberto Saviano “eroe” dell’antimafia ha presentato denuncia contro Paolo Persichetti, giornalista di Liberazione, in quanto non ha gradito la diffida inoltrata dal centro Peppino Impastato all’editore del suo penultimo libro, “La parola contro la camorra”.
Nella ricostruzione proposta da Saviano il merito di aver lacerato il velo di silenzio sulla morte di Impastato, consentendo anche la riapertura dei processi, viene attribuito per intero al film I cento passi di Marco Tullio Giordana, presentato al festival di Venezia nel settembre 2000. I due decenni precedenti, il fondamentale lavoro di controinformazione, condotto all’inizio in piena solitudine, dal Centro Impastato e dai suoi familiari scompaiono nel buco nero della storia. L’omissione, segnalano i legali del Centro, è tanto più grave perché l’operazione editoriale mira ad una diffusione di massa del testo che così contribuirebbe a edificare una riscrittura del passato contraria alla verità storica. L’infaticabile lavoro di denuncia del Centro Impastato aveva portato la commissione antimafia ad occuparsi della vicenda già nel 1998 mentre le indagini e i processi hanno tutti avuto inizio prima del film, che semmai ha coronato questo risveglio d’attenzione sulla vicenda. Saviano non è nuovo ad operazioni del genere. Quando non abbevera i suoi testi alle fonti investigative da mostra di evidenti limiti informativi. In un’altra occasione aveva anche raccontato di una telefonata ricevuta dalla madre di Impastato, «che abbiamo verificato non essere mai avvenuta» come ci ha spiegato Umberto Santino. Quest’ultimo episodio ripropone nuovamente gli interrogativi sul ruolo di amministratore della memoria dell’antimafia che a Saviano è stato attribuito da potenti gruppi editoriali. L’inquietante livello di osmosi raggiunto con gli apparati inquirenti e d’investigazione, che l’hanno trasformato in una sorta di divulgatore ufficiale delle procure antimafia e di alcuni corpi di polizia, dovrebbe sollevare domande sulla sua funzione intellettuale e sulla sua reale capacità d’indipendenza critica. Saviano oramai è un brand, un marchio, una sorta di macchina mediatica in mano ad alcuni apparati. L’uomo Saviano sembra divenuto un replicante. L’omissione del lavoro delle compagne/i e del centro Peppino Impastato, non appare affatto innocente ma la diretta conseguenza di una diversa concezione dell’antimafia risolutamente opposta all’antimafia sociale di Peppino Impastato. Una verità che con tutta evidenza il dispositivo Saviano non può più raccontare.
L’Impegno e il ricordo di Peppino parla quindi a noi, oggi, ancora di più, per il suo rigore scientifico, la sua tensione, la sua passione. Anche se tentano di trasformarlo in una icona imbalsamata, in un “santino” (come stanno tentando, del resto, con Che Guevara) va ricordato che Peppino fu, come amava rivendicare, un sessantottino, un comunista. Fu un organizzatore sociale e politico; organizzò il conflitto bracciantile; occupò terre. Fu un innovatore culturale, anche sul piano della comunicazione: “Radio Aut” fu esempio straordinario della capacità comunicativa di attaccare il comando mafioso anche con lo sberleffo, con la satira aspra e documentata che parte dall’inchiesta sul territorio. Ricordiamo Peppino, oggi, dopo tanti anni, con il sentimento vivo e l’affetto di chi si sente, anche emotivamente, parte di uno splendido impegno collettivo. Tanto più perché controcorrente.
Maggio 2011
Osservatorio sulla Repressione
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