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Polizia razzista

Polizia razzista, sbalordimenti e democrazia. I migranti, o i cittadini di origine migrante, sono sovra-esposti all’attenzione delle forze di polizia, per la loro marginalità sociale, per il loro aspetto, per la difficoltà a esprimersi in italiano. Le parole di sdegno espresse dal governo o di stupore dal capo dello Stato dopo la pubblicazione del nuovo rapporto della Commissione europea contro il razzismo e l’intolleranza non sorprendono, semmai avviliscono.

di Vincenzo Scalia da il manifesto

Il risentimento dell’esecutivo rispetto al rapporto del Consiglio d’Europa, che definisce razzista la polizia italiana, non sorprende. È stata la premier Meloni, qualche mese fa, ad affermare che criticare la polizia è sbagliato.

E poi si sta lavorando a una modifica della legge sul reato di tortura, faticosamente introdotta nel 2017, che in realtà suona come un’abolizione vera e propria, sempre sulla scia di quanto sostengono dalle parti di Palazzo Chigi.

Sorprende di più, e un tantino amareggia, lo sbalordimento del Capo dello Stato, che ha chiamato il Capo della Polizia per esprimergli la sua solidarietà. Se da un lato si comprende che il Presidente ha il compito di difendere le istituzioni di cui è il massimo rappresentante, dall’altro lato è vero che la difesa non dovrebbe essere acritica, ma dovrebbe considerare il rispetto della democrazia e delle libertà fondamentali. Tanto più che non si capisce perché l’Europa va bene quando si discute di guerra e di manovre economiche mentre sarebbe inattendibile quando mette in discussione il funzionamento, o le disfunzioni, degli apparati di stato.

Le istituzioni europee si avvalgono del lavoro di personale qualificato, che, nel caso specifico, supplisce all’assenza di una commissione interna, preposta ad indagare sugli abusi delle forze di polizia. Una misura che maggioranze di colori opposti, vuoi per calcolo elettorale, vuoi per non entrare in conflitto con un’istituzione nevralgica non prendono in considerazione di istituire. Qualora si volesse attribuire poca credibilità al rapporto del Consiglio d’Europa, basterebbe consultare i numeri e osservare da vicino i fatti nostrani per capire che siamo di fronte a un problema da considerare seriamente.

Un terzo dei detenuti è di origine straniera, e la carcerazione rappresenta il culmine del processo di produzione della devianza. Ci troviamo davanti a un meccanismo selettivo, che vede le forze dell’ordine, in quanto gatekeepers del sistema penale, in prima fila. I migranti, o i cittadini di origine migrante, sono sovra-esposti all’attenzione delle forze di polizia, per la loro marginalità sociale, per il loro aspetto, per la difficoltà a esprimersi in italiano.

Una volta immessi nel circuito penale, difficilmente possono contare su risorse come una difesa di nomina, interpreti, mediatori culturali, che li aiutino a chiarire positivamente la loro posizione giudiziaria. Finendo per ricevere una condanna penale, non di rado grazie alle sole testimonianze di esponenti delle forze dell’ordine che, in quanto pubblici ufficiali, non possono essere smentiti, a meno che non ci siano testimonianze in senso contrario. Se non bastasse questo, ci sono recenti fatti di cronaca che suffragano quanto affermato dagli osservatori europei, come il caso della caserma di Piacenza, del 2020, o quello della questura di Verona del 2022.

Gridare al complotto, sbalordirsi, non sono perciò le reazioni migliori da mettere in atto, e non è una questione di colore politico. Il caso inglese ne è un esempio. Quando nel 1981 gli Afrocaraibici di Brixton si sollevarono, innescando una catena di proteste nel resto del Regno Unito, Maggie Thatcher li definì usual rabble (canaglia abituale). Però si preoccupò di incaricare la Camera dei Lord di istituire una commissione di inchiesta sui fatti di Brixton, che produsse il rapporto Scarman, le cui conclusioni attribuivano i fatti di Brixton al razzismo delle forze di polizia. 16 anni dopo, la commissione d’inchiesta Macpherson, appurando l’insabbiamento da parte di poliziotti della Metropolitan Police londinese sull’omicidio del giovane afrocaraibico Stephen Lawrence, parlò di “razzismo istituzionale” dei poliziotti inglesi.

In entrambi le occasioni nessuno gridò al complotto, si scandalizzò o sminuì le inchieste. Anzi, si istituì la commissione indipendente sugli abusi di polizia e, dal 1997 in poi, si promosse l’apertura della polizia alla diversità. Non che i problemi siano stati risolti (tuttora gli Afrocaraibici vengono fermati 27 volte in più dei bianchi), ma si è tentato di stabilire dei contrappesi. È davvero triste dover prendere lezioni di democrazia da Maggie Thatcher. Ma questa è l’Italia di oggi.

Quanti errori grossolani a furia di considerare intoccabili e non criticabili le forze dell’ordine

di Lorenzo Guadagnucci da Altreconomia

Giorgia Meloni sdegnata (“Le forze dell’ordine meritano rispetto, non simili ingiurie”), Matteo Salvini indignato (“Se a questi signori piacciono tanto rom e clandestini, se li portino a Strasburgo”), il presidente Sergio Mattarella perfino “stupito”.

A giudicare dalla reazione dei vertici istituzionali, il meno che si possa dire del nuovo rapporto della Commissione europea contro il razzismo e l’intolleranza (Ecri), è che la Repubblica italiana ha dimostrato di avere davvero un serio problema con sé stessa e in particolare con le sue forze dell’ordine, che difende con cieco ardore, ma a prescindere dalla realtà.

L’Ecri ha messo nero su bianco, forte di una documentazione che nessuno ha osato mettere in discussione, ciò che già sappiamo, ossia che le forze dell’ordine italiane praticano forme di razzismo istituzionale, specialmente verso persone immigrate (specie se africane), famiglie rom, persone non eterosessuali. E c’è davvero da stupirsi che sia così?

Viviamo nel Paese in cui il discorso d’odio è pratica quotidiana di leader politici di primo piano (è ancora fresco il truce e francamente ignobile commento del ministro Salvini dopo l’uccisione di un giovane immigrato da parte di un agente: “Con tutto il rispetto, non ci mancherà”). Viviamo nel “Paese dei campi”, l’unico in Europa che da decenni segrega le famiglie rom e sinti fuori dai centri urbani e così le espone alla diffidenza e riprovazione sociale, accusandole poi di non volersi integrare.

Nel Paese che mantiene una tardo-ottocentesca legge sulla cittadinanza e nega la carta d’identità, fino ai 18 anni, perfino a chi nasce, vive e cresce sul suolo patrio, se i genitori sono stranieri. Nel Paese che contrasta l’immigrazione con tutti i mezzi: dal divieto d’ingresso generalizzato, ai centri di detenzione (ora anche delocalizzati), fino alla guerra alle navi di soccorso impegnate nei salvataggi dei naufraghi nel Mediterraneo. Nel Paese che chiama “clandestini” i rifugiati e i richiedenti asilo, e “immigrati di seconda e terza generazione” chi immigrato non è, se figlio o nipote di persone straniere (specie se di pelle nera).

Nel Paese che oltre vent’anni fa mostrò all’Europa e al mondo ciò che le sue forze dell’ordine possono arrivare a fare: era il 2001, Genova ospitava il G8 e ai torturati di Bolzaneto capitò di sentire gruppi di agenti intonare un coro che faceva così: “Uno-due-tre viva Pinochet; quattro-cinque-sei morte agli ebrei; sette-otto-nove il negretto non commuove”.

No, non c’è da stupirsi, e tanto meno da indignarsi, se la Commissione del Consiglio d’Europa segnala casi di “profilazione razziale” da parte delle polizie italiane e fa notare che queste “non sembrano essere consapevoli della gravità del problema”. Non c’è da stupirsi se “si rammarica del fatto che negli ultimi anni poco o niente sia stato fatto per garantire una maggiore responsabilità nei casi di abusi razzisti o LGBTI-fobici commessi da agenti della polizia di Stato, carabinieri e altri agenti delle forze dell’ordine”.

Non c’è nulla di cui stupirsi, nel Paese in cui i vertici politici e delle forze dell’ordine non hanno mai rinnegato e “sanato” nemmeno gli enormi abusi commessi al G8 di Genova, e semmai ci sarebbe da ringraziare la Commissione, perché il suo sguardo esterno consente di vedere ciò dall’interno resta invisibile, a causa dell’incapacità delle istituzioni italiane di essere oneste con sé stesse.

A furia di considerare le forze dell’ordine intoccabili e non criticabili, errori e abusi si sono accumulati senza mai essere affrontati, e ora si pretenderebbe di avere -o di far credere di avere- apparati di polizia immuni dal discorso d’odio, dal razzismo strisciante, dall’antiziganismo, dall’omotransfobia che circolano largamente nella società, nei media, nel discorso politico corrente.

Le parole spese da vari ministri, dalla presidente del Consiglio e dal capo dello Stato purtroppo non sorprendono, semmai avviliscono, perché i “consigli” indicati dal rapporto Ecri vanno nella direzione giusta, avendo un unico difetto: per essere considerati e accolti, è necessario che vi sia nelle istituzioni la consapevolezza di avere un problema. Senza indignarsi e tanto meno stupirsi.

 

 

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