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A processo per uno striscione

Inizia il processo contro un gruppo di “transfemministe antifà” che aprì uno striscione durante il lutto nazionale per la morte di Berlusconi, davanti al Vittoriano a piazza Venezia. Un segnale grave del crescente accanimento contro qualunque espressione di protesta sociale

Lunedì 8 luglio ci sarà l’udienza preliminare di un procedimento penale contro le persone che la mattina del 14 giugno 2023 aprirono uno striscione davanti all’Altare della patria con su scritto «Non siamo in lutto, siamo in lotta».

Il 14 giugno era uno dei tre giorni di lutto nazionale proclamato da parte del governo Meloni per la morte di Silvio Berlusconi. Tutto l’apparato mediatico del paese all’unisono si mise a celebrare le gesta dell’imprenditore di Arcore in modo totalmente parziale e acritico, una melassa agiografica e propagandistica che si era vista poche volte prima di allora, tanto meno nel caso di personalità così problematiche della politica italiana. La proclamazione dei tre giorni di lutto nazionale con tanto di bandiere a mezz’asta fu il più spudorato tra gli strumenti di propaganda utilizzati.

L’Italia che per vent’anni aveva duramente contestato Berlusconi per soffriva non poco questa situazione e aldilà di una notevole indignazione online, in più parti del paese si manifestarono forme di protesta. Tra queste, quella del pubblico del Teatro Regio di Torino che, tra i fischi, si rifiutò di alzarsi in piedi per un momento di silenzio per il lutto nazionale.

A Roma invece un gruppo di otto persone di vari contesti di movimento decise di esprimere in modo pubblico il profondo disagio attraverso una attività semplice e immediata come aprire uno striscione e lanciare un messaggio in un contesto significativo tale da conferire valore a una foto.

La foto che venne fatta, in effetti, ebbe un impatto immediato e una diffusione enorme, tra social media, giornali e portali di informazione. Nel comunicato che accompagnò l’azione scrissero «Viviamo in un paese che conta 15 morti sul lavoro a settimana. Un paese in cui ci sono stati 41 femminicidi soltanto nel 2023, 14 morti per colpevole disastro climatico in Emilia Romagna e quasi 500 morti in mare uccisi dalle frontiere, di cui 79 a Cutro. Un paese con 85 suicidi in carcere nel 2022. Di queste morti, di cui lo Stato è il primo responsabile, ci si cura molto poco nella forma pubblica e simbolica. Il lutto nazionale viene invece proclamato per una persona che ha causato danni incalcolabili al nostro paese. […] Un uomo che ha personificato la maschilità tossica egemonica, […] che ha dimostrato al paese che è proprio anche grazie a quella maschilità, sfoggiata come modello vincente, che si può acquisire potere, che si può disporre di qualunque cosa e di chiunque. Oggi non siamo in lutto, siamo in lotta. Nel costruire relazioni di cura, organizzarci insieme contro disuguaglianze e oppressioni di ogni forma, conquistare spazio per moltiplicare le collettività transfemministe».

Le persone coinvolte vennero ovviamente interrotte dopo pochi minuti dalla lettura del comunicato, ma le solerti forze dell’ordine non si limitarono all’identificazione, bensì vollero accompagnare in commissariato Trevi le presenti. Si pensava che tutto si sarebbe concluso in quella circostanza come solitamente accade, eppure mesi dopo sono arrivate le notifiche relative alle indagini che poi hanno portato all’avvio del procedimento penale.

Il reato contestato è l’articolo 18 del Testo Unico sull’Ordine Pubblico e la Sicurezza, un testo risalente al 1931 (sic!) in cui si vietano raduni di più persone senza preavviso al questore. L’articolo poi è stato modificato in senso costituzionale dopo la guerra e oggi “limita” l’incriminazione solo a chi organizza la manifestazione non autorizzata. Solitamente è il reato più banale utilizzato contro le attività politiche di movimento o più o meno spontanee, quella che le forze di sicurezza utilizzano come ricatto per sciogliere manifestazioni improvvisate, o per intimidire chi è più espostƏ e conosciutƏ che viene accusatƏ di essere organizzatore/trice. Tuttavia proprio per la banalità delle situazioni sopra descritte, è una imputazione che molto raramente porta a un processo, sopratutto se non accompagnata da altre contestazioni di reato che possono generarsi in contesti di piazza, come danneggiamento, violenza privata o resistenza a pubblico ufficiale.

Eppure, con lo striscione del 14 giugno la magistratura ha scelto di andare a processo nonostante il numero di persone esiguo, nonostante la durata limitata e l’impossibilità di stabilire chi abbia organizzato la manifestazione. Le persone imputate, intervistate dalla redazione, si dicono serene e convinte che si giungerà alla assoluzione.

Tuttavia è un fatto che fa riflettere. Assai probabile è che quella semplice foto provocò non poco fastidio, per la grande diffusione nella stampa online e cartacea anche nei giorni successivi. Per sovvertire la retorica mediatica del lutto era stato utilizzato come sfondo proprio un luogo considerato “sacro” dal discorso nazionalista.

Al tempo stesso è un segnale dei tempi difficili che viviamo, in cui da un lato il governo continua a legiferare introducendo reati e riducendo lo spazio democratico di confronto e di conflitto, dall’altro la magistratura arriva ad accanirsi per uno striscione che otto persone aprono per cinque minuti.

È un segnale che però può e deve essere stimolo per un proliferare di lotte, per contrastare l’intento evidente di paralizzare qualunque tentativo di opposizione alla gestione reazionaria e fascista del potere. (da DINAMOpress)