Non so. Magari alcune cose le dava per scontate, ma comunque l’articolo di Pietro Veronese del 21 agosto (su la Repubblica) mi ha lasciato con qualche perplessità.
Vi si parla di un “caleidoscopio” di culture e di etnie, di un Paese ammirato da illustri visitatori (tra cui Martin Scorsese per “cercare le fonti del blues…”). Di Dogon e di Tuareg “etnie-mito dell’Africa (…) oggi in guerra, vittime o complici dell’islamismo più feroce”.
Che – messa così – leggendo il seguito e sapendo delle aggressioni subite dai Dogon (onorata e rispettabile minoranza, sia chiaro) verrebbe da pensare che invece i Tuareg (una Nazione senza Stato che vive – e si sposta – non solamente entro i confini del Mali; inevitabile un’analogia con i Curdi) siano in combutta organica e stabile con le bande jihadiste.
Sempre stando all’articolo, la diffusione in Mali dell’islamismo radicale sembrerebbe coincidere con il rientro delle “milizie nomadi”(notoriamente rappresentate soprattutto da Tuareg) “alleate del beduino Gheddafi”. Magari sorvolando sulle ragioni per cui molti Tuareg (in parte legati al Movimento Nazionale di Liberazione dell’Azawad, ) si erano rifugiati in Libia per sfuggire alla repressione. Tra l’altro, fra le ipotetiche ragioni dell’aggressione alla Libia, qualche osservatore suggeriva il rifiuto sia da parte di Gheddafi, sia delle milizie tuareg di prestarsi a venir utilizzate contro altri movimenti africani (in particolare in Somalia come avrebbe richiesto Washington fornendo nel contempo armi e attrezzature moderne). Chissà?
Non si può mai dire, naturalmente. Anche se personalmente ritengo che la ragione principale per l’attacco alla Libia sia lo spot pubblicitario di Sarkozy. All’epoca Parigi incontrava qualche difficoltà nel vendere i suoi nuovi aerei Dassault Rafale (vedi la disdetta, temporanea, da parte del Brasile) e così ebbe modo di mostrarne l’efficacia direttamente sul campo. Bombardando i suoi stessi Dassault Mirage – ancora al suolo – venduti alla Libia soltanto pochi anni prima.
In effetti a seguito della caduta di Gheddafi la maggior parte dei Tuareg prese la via del ritorno verso casa. Già che c’erano portandosi appresso una discreta quantità di armamenti sofisticati. Armi, in parte poi incautamente vendute a gruppi jihadisti ben riforniti di petrodollari. Capita, talvolta, ai poveri di far cazzate del genere.
Senza comunque ignorare che effettivamente qualche ex esponente del MNLA (come Iyad Ag Ghali) si era avvicinato alle milizie jihadiste in contrapposizione agli ex compagni di lotta.
Frutto – presumibilmente – più che di conversione religiosa, di personalismi e faide interne.
Per farla breve, si arrivava al 6 aprile 2012 e alla dichiarazione unilaterale di indipendenza dell’Azawad che di fatto spaccava il Mali in due. L’antico sogno tuareg si stava forse per realizzare? Macché. Non erano trascorsi nemmeno venti giorni quando – non si capiva se per inesperienza, stupidità o sotto minaccia – alcuni referenti del MNLA presenti sul campo firmavano un accordo- capestro con Ansar Al-Din, un gruppo islamista finanziato da Al Qaida nel Maghreb islamico (e non entro qui nelle ragioni che hanno portato all’uso improprio del termine Maghreb da parte di questa organizzazione terroristica). Nella prospettiva della creazione di un “Consiglio transitorio dello Stato islamico dell’Azawad” formato d 40 membri, 20 del MNLA e 20 di Ansar Al-Din.
Addirittura, pare, con l’applicazione della sharia e la costituzione della polizia islamica (hisba).
Come definirlo? Un matrimonio forzato, una chimera? Sicuramente esistono metodi più semplici per suicidarsi politicamente.
A sua parziale giustificazione Bilal Ag Sherif, segretario del MNLA e firmatario dell’accordo, sosteneva di aver agito per evitare una guerra interna tra Tuareg ritenendo così di spingere i fratelli integrati in Ansar Al-Din ad abbandonare i ranghi jihadisti. Situazione che mi ricordava il dramma dei gudari – i combattenti baschi antifascisti – di fronte ai fratelli integrati nelle milizie carliste (i requétes) a cui, ingannandoli, Franco aveva promesso l’autonomia delle Vascongadas. Per inciso, sappiamo come questi ultimi ebbero poi – e amaramente – l’occasione per ricredersi, ben prima degli eventi del 1976 a Montejurra (Jurramendi).
Comunque – tornando all’accordo del 2012 – si trattava evidentemente di una mostruosità e come tale venne prontamente sconfessata dal coordinamento dei responsabili del MNLA (in gran parte rifugiati in altri Paesi africani per sfuggire alla repressione).
Il portavoce del MNLA Habaye Ag Mohamed definiva “inconciliabile con la linea politica del MNLA l’atteggiamento fondamentalista e in particolare il jihadismo salafita portato avanti da Ansar Al-Din”
Bilal Ag Sherif, firmatario del documento, veniva severamente richiamato all’ordine e invitato a rompere tale accordo seduta stante.
Interveniva quindi Nina Valet Intalou, nota militante tuareg ed esponente dell’Ufficio esecutivo del MNLA. Con forza dichiarava di “rigettare categoricamente questo accordo, perché cercare di evitare una guerra fratricida non significa accettare il diktat imposto da gruppi oscurantisti”.
Il documento, aveva poi spiegato Nina Walet Intalou “era stato firmato pensando che i nostri fratelli Tuareg schierati con Ansar Al-Din avrebbero lasciato questa organizzazione terroristica.
Avremmo potuto accettare uno Stato islamico democratico, pensando che noi siamo già musulmani. Ma il documento proposto da Iyad Ag Ghali è veramente contrario agli obiettivi del MNLA e alla nostra cultura. Quello che lui vorrebbe è uno Stato talebano”.
Siamo, ricordo, nel 2012 e quindi il confronto veniva spontaneo con i talebani. Oggi probabilmente evocherebbe lo spettro dell’Isis.
A conferma della radicale estraneità tra il movimento per l’autodeterminazione e l’integralismo islamista, il 5 e il 6 giugno 2012 centinaia di donne e di giovani tuareg della città di Kidal scendevano in strada per protestare contro i fondamentalisti. Successivamente, nella notte tra il 7 e l’8 giugno, avvenivano nutriti scambi di colpi di armi automatiche tra militanti di MNLA e di Ansar Al-Din.
Come è noto – o forse no – la storia della lotta tuareg per l’autodeterminazione (sia indipendentista che autonomista) è da sempre attraversata da scissioni e conflitti interni.
Anche colui che all’epoca rivestiva il ruolo di capo di Ansar Al-Din, Iyad Ag Ghali, in precedenza si era distinto come promotore delle rivolte degli anni novanta del secolo scorso.
Ma, almeno fino a quel momento, le istanza dell’islamismo radicale non avevano trovato spazio significativo all’interno del movimento tuareg, da sempre sostanzialmente laico.
La storia successiva è nota. Dopo qualche mese il Nord del Mali era ormai completamente in mani jihadiste (oltre ad Ansar Al-Din, anche il Muiao e direttamente AQMI) e con la riunione internazionale di Bamako del 19 ottobre 2012 si avviava quel “progetto di intervento militare credibile” richiesto nella settimana precedente alla Comunità economica degli Stati dell’Africa dell’Ovest (Cedao) e all’Unione Africana. La Francia riusciva a coinvolgere i 15 Paesi membri del Consiglio di Sicurezza e porre la questione sotto il capitolo VII della Carta delle Nazioni Unite (in quanto la situazione del Paese africano costituiva “una minaccia per la pace e la sicurezza internazionale”). Nel frattempo una delegazione algerina si era recata a Washington (gli USA vedevano con favore “una operazione militare condotta dagli africani” piuttosto che l’intervento di una forza internazionale come chiedeva Bamako) per discutere in merito a un proprio ruolo.
Da parte del governo, in prossimità dei territori occupati, erano già stati allestiti campi di addestramento. Ma – vuoi per mancanza di mezzi, vuoi per imperizia – risultavano alquanto scadenti. Con i volontari alloggiati in strutture provvisorie, senza armi e addirittura scarsamente riforniti di generi alimentari (letteralmente “alla fame” secondo alcuni visitatoti, nemmeno in grado di compiere l’addestramento). Com’era prevedibile, molti disertarono per raggiungere Ansar Al-Din e il Mujao (Movimento unicità e jihad nell’Africa dell’Ovest). Infatti tali organizzazioni, ben finanziate, garantivano “assistenza economica alle famiglie di ogni combattente vivo o morto e un’abitazione fino al momento in cui i figli saranno in grado di sposarsi”.
Sappiamo poi com’era andata a finire.
Va solo ricordato che – a conti fatti – nel 2013 anche i combattenti tuareg si schierarono a fianco dell’Esagono nella battaglia contro i gruppi jihadisti.
Gianni Sartori