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Quando la forza è il rovescio del diritto

È inaccettabile, in uno Stato di diritto, che sia proprio lo Stato, di cui le forze dell’ordine sono espressione, ad assumere comportamenti improntati alla violenza, nella quale la dismisura si traduce, in sé stessi e nelle conseguenze finali che producono

di Niccolò Nisivoccia da il manifesto

È molto grave quello che si vede e si sente nei filmati adesso disponibili sulla morte di Ramy Elgaml, avvenuta il 24 novembre scorso a Milano dopo un inseguimento durato circa venti minuti da parte dei carabinieri.

Com’è noto, Ramy era su uno scooter con un amico, i due non si erano fermati all’alt, i carabinieri inseguivano su due macchine. Si vedono appunto delle immagini di questo inseguimento per le strade della città, anche in contromano. Si sente la voce dei carabinieri dire cose come: «Chiudilo, chiudilo, chiudilo che cade; no, merda, non è caduto». Si vede (o quantomeno sembra di vedere) che alla fine lo scooter viene effettivamente tamponato da una delle due macchine; e si capisce (o quantomeno sembra di capire) che è questo tamponamento a portare lo scooter a sbattere contro il semaforo (provocando la morte di Ramy). Si sente la voce dei carabinieri dire «sono caduti», e un’altra voce rispondere «bene».

Cosa ne emerge? In primo luogo l’indifferenza dei carabinieri rispetto al pericolo verso altre persone che quell’inseguimento poteva provocare (era notte, d’accordo, ma anche di notte è possibile che delle persone attraversino le strade). In secondo luogo l’intenzione deliberata di far cadere lo scooter su cui viaggiavano Ramy e il suo amico, accettando l’idea che la caduta potesse provocare la loro morte. E non sono gravissimi in quanto tali, questi dati? Non sono, quelli dei carabinieri, comportamenti contrari a qualunque elementare norma di misura, di equilibrio? Non è proprio questo – il rispetto della misura, dell’equilibrio – che dovrebbe connotare il comportamento di tutti, ivi incluse le forze dell’ordine, e ciò che tutti ci aspettiamo dagli altri con i quali entriamo in relazione, a maggior ragione quando gli altri siano le forze dell’ordine? È accettabile, in uno Stato di diritto, che sia proprio lo Stato, di cui le forze dell’ordine sono espressione, ad assumere comportamenti improntati alla violenza, nella quale la dismisura si traduce, in sé stessi e nelle conseguenze finali che producono?

Si dirà (come si è già detto): il pericolo non è stato generato dai carabinieri, ma da Ramy e dal suo amico; chi non si ferma a un posto di blocco va inseguito e basta; i carabinieri hanno solo fatto il loro dovere; il rischio riguardava i carabinieri stessi per primi. Ma questo è un argomento che presuppone la commensurabilità dei comportamenti in gioco (quello di Ramy e del suo amico, da una parte, e quello dei carabinieri dall’altra), sul presupposto che si tratti di comportamenti valutabili alla luce di un medesimo parametro. E da questo punto di vista non c’è dubbio: nel momento esatto in cui non si sono fermati all’alt, Ramy e il suo amico si sono posti al di fuori della legge, legittimando una reazione dei carabinieri.

Ma la situazione non poteva giustificare una reazione che contemplasse la morte, di Ramy e del suo amico o di altri, come sua possibile conseguenza. E questa è una considerazione che sarebbe sufficiente anche da sola: come potremmo ammettere che una vita valga meno del rispetto di un alt? Ramy e il suo amico potevano essere chiunque, due criminali come due ragazzini che avevano paura di dover rendere conto ai genitori di aver bevuto un po’: la reazione dei carabinieri è stata assunta, di per sé, semplicemente a fronte del mancato rispetto di quell’alt.

Ma comunque non è solo questo. Il fatto, ancora più in generale, è che il comportamento di chi si pone fuori dal diritto e dalla legge, e che in questo modo se ne svincola, non può mai essere interpretato e valutato alla stessa stregua di quello dello Stato, che alle ragioni del diritto e della legge dovrebbe rimanere sempre e per definizione vincolato: e questa è un’evidenza perfino epistemologica, anche a prescindere dagli elementi del caso concreto. Negarla equivarrebbe tout court ad ammettere il rovesciamento del diritto e della legge nel loro contrario: non più strumenti di contenimento della forza, funzionali al rispetto della misura, ma strumenti di forza smisurata a loro volta, svilimento di sé stessi. È un rovesciamento al quale troppo spesso, e sempre di più, siamo costretti ad assistere, ormai quasi quotidianamente.

Non si tratta, sia chiaro, di puntare il dito contro le forze dell’ordine o di mancare di gratitudine verso coloro che le rappresentano. Semmai è proprio il doveroso riconoscimento dell’alto valore dei compiti svolti dalle forze dell’ordine a richiedere che i problemi vengano affrontati, come ha scritto Roberto Cornelli in un suo importante saggio su questi temi (La forza di polizia), «con strumenti e sguardi capaci di andare oltre lo scandalo e l’indignazione, da un lato, l’imbarazzo e le difese d’ufficio, dall’altro».

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