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Riace. È in gioco la nostra idea di libertà, autonomia e solidarietà

Si scrive tanto di Riace, ed è bene leggere ogni cosa. In questa lunga vicenda ci sono evidenze (come la condanna ingiusta) e cose che non tornano (come l’assenza della carta d’identità di Becky Moses nel processo).

Costretti come siamo a parlare di giudiziaria, spesso mandiamo in secondo piano gli aspetti importanti del “modello Riace”. La prima cosa che mi viene da scrivere, perciò, è: attenzione a non cascare nella trappola giudiziaria, in questa partita ci giochiamo la nostra idea di libertà, autonomia e solidarietà.

Un’altra cosa che mi viene da scrivere, a caldo, è: il nostro limite resta la solitudine. Sono tante le esperienze, sparse ed eterogenee, di comunità e di informazione, di cultura e mutualismo, ma agiamo in un’incredibile solitudine che riusciamo a superare solo quando qualcuno di noi viene ferocemente attaccato, come in questo caso Mimmo Lucano. Mi chiedo: se invece di una le Riace fossero state 100, 1000, sarebbe bastato attaccare Mimmo Lucano per infangare un’intera idea di autogoverno e solidarietà? Avrebbero dovuto attaccarne cento, mille.

Ridurre un modello di cittadinanza a modello di accoglienza è stata una brutta trappola. Riace è stata trasformata in un campo di battaglia dove si fronteggiano le posizioni accoglienza sì / accoglienza no / accoglienza come. Ma Riace non è “solo” un modello di accoglienza, è stata per quindici anni un modello di cittadinanza dove gli abitanti condividevano un solo principio egualitario: pari diritti e doveri, al di là dell’origine e condizione burocratica. Acqua pubblica per tutti. Rispetto del territorio, per tutti. Rinascita del sistema economico e sociale, per tutti. Presidio sanitario, per tutti. In questo senso i fondi dell’accoglienza hanno costituito una base (e non il centro) di un modello che ha permesso a un piccolo borgo dell’entroterra calabrese di ritornare in vita, di rinascere.

Aprendo le porte ne guadagniamo tutti. Il modello Riace ci ha insegnato che l’accoglienza fa bene non solo a chi è accolto ma anche a chi accoglie. Ha rappresentato per anni l’alternativa ai casermoni, alle palestre, agli hotel affittati in cui la povera gente viene schiacciata a riso e acqua. Oltre ogni business, Riace ha dimostrato che è possibile accogliere là dove noi emigranti abbiamo lasciato terra abbandonata, qualche volta anche bruciata. Insomma è la prova provata che accogliere può significare rinascita sociale, economica e anche politica.

Quel modello è stato assediato, attaccato, oserei dire disintegrato. Tornando oggi a Riace non salta agli occhi solo l’assenza di qualche decina di rifugiati, manca il tessuto sociale, il tessuto di vita. È tornato a essere uno dei tanti paesi dell’entroterra calabrese, del meridione.

Nonostante i tentativi di separare la questione migranti da quella finanziaria, Mimmo è di fatto accusato di “reato di solidarietà” alla pari di Cédric Herrou in Francia o di altre attiviste e attivisti alle frontiere, penso a Trieste o al confine con la Francia.

Sotto la forma più burocratizzata possibile, l’accusa punta il dito contro la gestione di un modello. Chiariamo subito un equivoco insopportabile: Mimmo Lucano è accusato (anche) di “peculato” ma non si è messo in tasca un euro, pure il colonnello della Guardia di Finanza lo dice (è trascritto nei verbali del processo). Mimmo non è accusato di avere rubato per sé, ma di avere “mal gestito” i fondi dell’accoglienza. Di averli usati troppo bene, mi permetto di aggiungere. È proprio qui il punto: in quella “ricaduta sul territorio” che ha portato la Regione Calabria ad approvare quel modello con la legge n. 18 del 2009. Altri tempi.

A partire dal 2011, con l’emergenza Nord Africa, il sistema di accoglienza in Italia ha mostrato tutti i suoi vuoti, mai colmati. Prefettura e ministero degli Interni chiamavano anche di notte Lucano e inviavano a Riace pullman carichi di gente. Lucano ha detto sì davanti a quella umanità, non è certo andato nei porti a rapire o catturare quelle persone.

In questi vuoti istituzionali (penso alla condizione dei lungo permanenti, per esempio) Riace ha individuato soluzioni che smantellavano il business dell’accoglienza. E lo ha fatto lì, dove pulsa il cuore della ’ndrangheta. Oggi paga per questo. Per aver trovato soluzioni in un sistema che mette la burocrazia davanti alle persone, la regola scritta davanti alla logica evidente.

E paga caro, con anni di indagini e intercettazioni, avvisi di garanzia, un arresto, un esilio, una condanna a 13 anni e due mesi. Per la tentata strage razzista del 3 febbraio 2018, Luca Traini è stato condannato in via definitiva a 12 anni di reclusione, Mimmo (in primo grado) a 13 anni e due mesi. È evidente che questa sentenza è a dir poco esagerata. Così esagerata da costringere la politica istituzionale a inseguire la pancia buona del paese. La gente scende in piazza, non solo a Riace, ed è tale il sentimento di solidarietà che la politica – specie quella che finge di essere di sinistra – è costretta a schierarsi così.

Saremmo scesi in piazza con una condanna meno plateale? Forse sì, forse no. Forse quel pregiudizio latente per cui un calabrese non capisce bene quello che fa, l’idea che un uomo del Sud debba necessariamente essere un “pasticcione”, avrebbe preso il sopravvento. Se Mimmo Lucano fosse stato Veneto – non posso non chiedermi – si sarebbe parlato di “pasticci”? Quelli che si condannano non sono “pasticci”, ma soluzioni formulate da un governo locale davanti alle carenze dello Stato.

Ci sono evidenze e cose che non tornano, quindi. Il Tribunale di Locri ha condannato Lucano a 2 anni e 10 mesi per il rilascio di una carta di identità e lo ha assolto per il rilascio di un’altra. Ma c’è un’altra carta di identità ancora che è stata “dimenticata”. Ed è assai significativa, perché è stata rilasciata a Becky Moses, che la notte del 26 gennaio è stata uccisa dalle fiamme nella sua capanna dentro la baraccopoli di San Ferdinando. Aveva acceso un braciere per scaldarsi, o forse per lavarsi o cucinare. Era lì da appena tre giorni, aveva lasciato Riace dopo essere stata a lungo ospite dei progetti Sprar di Riace, dove aveva una casa e stava imparando un mestiere. Finché la commissione territoriale ha comunicato il diniego, rifiutando la sua richiesta di asilo politico.

Becky era nata l’11 gennaio in Nigeria, così si legge sulla sua carta di identità, del 21 dicembre 2017, che porta la firma del sindaco Mimmo Lucano. Un rigo più sotto si legge: “cittadinanza: Riace”. Eppure quel documento non è contestato. Perché dentro l’aula del tribunale non si discute anche di quel documento e quindi di quella morte? In Italia si processa un modello di umanità mentre è “tutto in regola” in situazioni come la baraccopoli di San Ferdinando. Scempi garantiti dalle istituzioni.

A pensarci, scoppia la testa.

A che serve schierarsi, posizionarsi o addirittura polarizzare: colpevole/innocente? Forse occorrerebbe uscire dal vortice di polarizzazione e manettarismo. Qui c’è in ballo una lotta politica sulla gestione dell’accoglienza, sulla gestione dei flussi migratori, sulla libertà di movimento.

La politica non si fa nei tribunali. Decenni di centrosinistra sotto le toghe della magistratura – in quella panacea che è stato l’antiberlusconismo – hanno consegnato alle peggiori destre il garantismo che adesso torniamo a rivendicare. Lasciamo giudici e pm dentro i tribunali, torniamo a fare politica fuori dalle aule.

Rallentiamo, non accontentiamoci. E quando il segretario Enrico Letta esprime solidarietà a Lucano, per esempio, potremmo chiedergli perché Marco Minniti, un ministro del suo partito, ha avviato lo smantellamento e la criminalizzazione del modello Riace.

Tiziana Barillà