Ribellarsi è giusto (ma talvolta, oltre alla repressione, si rischia la strumentalizzazione)
Non sarebbe la prima volta che chi (a prezzo di immensi sacrifici) porta avanti se non una completa rivoluzione, perlomeno una ribellione degna di questo nome, viene poi elegantemente messo da parte dai nuovi dominanti.
di Gianni Sartori
L’immensa ribellione che dalla morte ingiusta di Jina Amini (ostinatamente ricordata sui media con il solo nome persiano – imposto d’ufficio – di Masha) percorre incessante come onde di marea (ricordate le onde prodotte dal vento nella steppa in “Storia della Rivoluzione Russa”?) non è priva di contraddizioni interne. In primis il fatto che venga sottostimata la portata del ruolo della resistenza curda. Non solo per aver fornito l’innesco (anche se evidentemente il combustile non mancava), ma perché si ignora – o si finge di ignorare – che per i curdi – e soprattutto per le donne curde – del Rojhilat (il Kurdistan sotto occupazione iraniana) questa situazione non è certo inedita. (v. http://uikionlus.org/donne-e-curdi-le-prime-vittime-della-repubblica-islamica/).
Forse avevo già evocato una possibile strumentalizzazione da parte dei nostalgici del regime fascista dei Pahlavī (quando le donne potevano indossare la minigonna, ma la Savak menava strage dei dissidenti).
Addirittura il 15 ottobre a Londra (ma episodi analoghi sarebbero avvenuti anche in Francia e in Belgio), in una manifestazione di sostegno ai rivoltosi iraniani, i nostalgici della monarchia decaduta nel 1979 avevano cercato di allontanare chi inalberava bandiere del Kurdistan e del Belucistan. Rivendicando il fatto che nel 1936 Reżā Shāh Pahlavī (il padre di Mohammad Reza) aveva proibito per decreto l’uso di hijab e chador.
Del resto non sarebbe la prima volta che chi (a prezzo di immensi sacrifici) porta avanti se non una completa rivoluzione, perlomeno una ribellione degna di questo nome, viene poi elegantemente messo da parte dai nuovi dominanti.
Vedi la nostra Resistenza quando le classi subalterne (la maggioranza dei partigiani erano operai, contadini…), tolsero le castagne dal fuoco alla borghesia che il fascismo lo aveva prodotto e coltivato, per ritrovarsi poi nuovamente sottoposti, subalterni, oppressi e sfruttati.
Per tornare in Iran, perfino una canzone, “Per” (برای, Baraye) diventata quasi l’inno ufficiale della rivolta, sembra risentire di tale atteggiamento. Comunque poco rispettoso dell’identità curda.
Nel testo del cantautore persianoShervin Hajipour troviamo queste richieste, presentate come universali:
“ Per danzare nella strada, Per la paura di abbracciarsi(…) per mia sorella, tua sorella, le nostre sorelle, Per cambiare i cervelli imputriditi, Per provare vergogna, per non avere denaro (…) per quest’aria inquinata, Per Piruz e la sua probabile estinzione (il riferimento è al ghepardo persiano, così soprannominato – forse – in memoria di un antico eroe-guerriero persiano nda),Per i cani innocenti proibiti (forse un riferimento all’ostilità tradizionale di alcune correnti islamiche verso i cani? In compenso pare che il profeta amasse i gatti…nda), Per i bambini afgani…”
Tutte cose buone e giuste, condivisibili…mah? Che fine hanno fatto curdi e beluci in tutto questo? Non un solo riferimento all’oppressione di tipo etnico e linguistico.
Tanto che un altro musicista, stavolta curdo, ha voluto rispondere con una sua versione.
Chia Madaniha scritto “ Bۆ “ (“bo “ ossia “per” in Curdo)
All’inizio ringrazia Hajipour per le sue “belle e tenere parole”, ma poi gli ricorda che “le mie ferite sono più antiche e profonde delle tue” e si richiama ad un’altra sua canzone, “Jina”. Nome proibito dalla burocrazia islamica (costringendo la famiglia a scegliere quello persiano di “Mahsa”) e che non le viene restituito nemmeno da morta.
La canzone continua “per le sofferenze degli emarginati, per gli insegnanti curdi arrestati e giustiziati, per i padri che devono pagare il prezzo delle pallottole con cui i loro figli vengono uccisi…
Fa rifermento alla canzone di Hajipour anche Fatane Farahani, femminista persiana, nel suo articolo:
“70 Feminist Reasons for Women’s Protest in Iran Today2.
Iniziando sempre con “per”, elenca dozzine di militanti persiani (“per la prima femminista iraniana Tahereh Qara Al-Ain, per Nasrin Sotoudeh, Narges Mohammadi, Shiva Nazar Ahari, Sepideh Qalian e Mahosh Thabit”.
Bontà sua, la parola “curdo” viene riportata due volte nell’articolo. Una in quanto etnia insieme a quella di arabi e beluci (le cosiddette “minoranze”) e un’altra in riferimento ad alcuni attivisti omosessuali curdi. Ma in tutto l’articolo non vengono mai citate né Zara Mohammadi (insegnante curda, fondatrice dell’associazione culturale Nûjîn, arrestata in gennaio e rinchiusa nella prigione di Sine/Sanandaj), né Zeinab Jalalian. Questa attivista curda è in prigione dal 2008. Arrestata a Kermanshah, veniva condannata a morte nel gennaio del 2009 per “ostilità verso Dio”. Il suo processo eradurato pochi minuti, sostanzialmente senza fornire prove e senza un’adeguata rappresentanza legale.
L’esecuzione è stata impedita soltanto dalle proteste internazionali. Malata, Zeinab Jalalian che aveva lottato per i diritti delle donne per anni, in carcere non è stata curata.
Alcune femministe curde non lo mandano a dire. Secondo loro a quelle iraniane non interessa un cambiamento radicale, ma soltanto ottenere un cambio di regime in cui siano garantite le libertà civili. Ma questo, per le popolazioni considerate “minoranze” (religiose o etno-linguistiche) non comporterebbe una trasformazione sostanziale in senso egualitario e autenticamente democratico.
Per le femministe curde (e voci analoghe si levano da altri gruppi come i beluci, tanto che si è coniata l’espressione di “femminismo periferico” per indicare il femminismo non persiano) diventa essenziale, esistenziale condurre anche altre battaglie. Prima di tutto contro il sistema patriarcale, poi contro la teocrazia, contro quello che viene definito “femminismo etnico dominante” (ossia persiano, quello “centrista”) e infine contro l’oppressione etnica-nazionale (questione questa particolarmente sentita, sulla propria pelle, da curdi e beluci).
Accusando implicitamente le femministe persiane di usufruire comunque di vantaggi in campo politico, nella mobilità sociale, a livello di istruzione scolastica e sul piano culturale.
Ma soprattutto di “sottoscrivere il discorso nazionalista della Persia indipendentemente dal sistema di esclusione e oppressione nei confronti degli altri gruppi etnici”.
Di occuparsi sostanzialmente solo delle questioni digenere, sorvolando sul fatto che in quanto persiane godono di sostanziali privilegi (etnici, linguistici, religiosi.).
“Cieche” (o per altri “daltoniche”) nei confrontidelle altre etnie. Negando, in pratica, l’esistenza di altre identità etniche (Curdi, Beluci, Arabi, Azeri, Lur, Gilak, Turcomanni…), relegate nel folcloristico in nome di una “Persia” mitica:
“Antica e unificata con una sola storia, una sola cultura e una sola lingua, rappresentata e incarnata dai persiani etnici”
Analogamente, sottolineano, al “femminismo bianco” (white anglo-saxon protestant?) operante negli Stati Uniti. Mentre le femministe curde, evidentemente, si riconoscono maggiormente nella situazione delle donne nere afro-americane. Allo stesso modo delle “femministe bianche statunitensi”, molte femministe persiane non si renderebbero conto di maschere e giustificare una vera e propria supremazia razziale.
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