In Israele chi rifiuta la leva è punito da sei mesi a un anno, ma col protrarsi del conflitto si rischia anche di più. La storia di Itamar Greenberg, obiettore di coscienza e attivista
di Massimo Berruti da il dubbio
In Israele, nel frammentato panorama dell’attivismo contro l’occupazione, i più giovani si distinguono per l’obiezione di coscienza alla leva militare. Un atto eclatante con conseguenze tangibili. Tra questi ragazzi incontriamo Itamar, 18 anni. Ad agosto verrà convocato per la leva obbligatoria. Due anni e otto mesi per i ragazzi e due anni per le ragazze. Itamar ha però deciso di non servire. Non si riconosce più nell’anello culturale in cui è cresciuto da bambino e non crede nelle politiche che vedono nell’occupazione e nei suoi insediamenti, un modello utile per la sicurezza comune come per quella pace che nel suo paese manca sin dalla sua creazione. Itamar è un obiettore di coscienza ed attivista per la causa Palestinese, ha deciso di intraprendere questa difficile strada, nonostante tutto, nonostante il 7 ottobre. Per lui questi atti rappresentano l’unica vera speranza di pace. In Israele gli obiettori sono soggetti al carcere per una durata ufficialmente indefinita, di solito tra i 6 mesi e un anno, ma col protrarsi della guerra la punizione potrebbe essere più aspra. Pur non arretrando sulla sua posizione e convinto della bontà delle sue intenzioni, Itamar ha paura. E conta uno ad uno i giorni di libertà che gli restano.
Qual è la tua formazione? Dove hai studiato?
Ho studiato in una scuola Ebraica, dedita all’insegnamento del Talmud e della Thora. Vengo da una famiglia ortodossa e questo è il normale percorso formativo. Poi ho abbandonato la comunità, mi sono distaccato da un punto di vista culturale. Non ho molto da dire da un punto di vista religioso, ma per quanto riguarda il mio credo politico, mi riconosco in una sinistra che qui viene definita come “radicale”.
Radicale in che modo?
In Israele viene definito come radicale quasi qualsiasi disallineamento con la dottrina coloniale del governo, di questo attuale come dei precedenti. Certe divergenze di opinioni non sono ben viste. La difesa dei diritti per i palestinesi in Israele, è certamente considerata come la più radicale delle posizioni ed io la sostengo.
Quando dovrai apparire in tribunale per sostenere il tuo rifiuto alla leva?
Il prossimo agosto. So bene che dovrò affrontare il carcere, e tramite persone che lo hanno fatto prima di me so anche che questa condizione durerà 6-12 mesi prima che mi rilascino. Ogni mese verrò condotto di fronte al giudice per confermare o meno la mia posizione, quindi in carcere di nuovo. Il sistema cerca di piegarti alla sua volontà in tutti i modi. Psicologicamente sarà molto difficile, e puoi affrontarlo solo se sei fermamente convinto delle tue ragioni. Credo fermamente che questo sia un potente segnale per il governo e tutta la mia società, rispetto alle ingiustizie che avvengono qui come l’oppressione dei palestinesi nei territori occupati.
Sei molto giovane, come hai formato questa tua convinzione?
Sono sempre stato molto interessato al “conflitto” e volevo saperne di più. Per noi è una condizione con cui si cresce, quasi del tutto scontata. Appena ho potuto ho fatto ricerche su Internet. Qui internet non è aperto come altrove, non è possibile accedere a tutte le informazioni. È così che è iniziato un processo che mi ha portato ad identificarmi come “di sinistra” circa 4 anni fa. Ho messo in discussione la mia società e di conseguenza anche le regole imposte dalla mia affiliazione all’ortodossia. Per questo ho abbandonato.
Cosa significa abbandonare?
La mia famiglia è speciale, siamo molto uniti. Non possono appoggiare la mia decisione, ma l’hanno accettata. Stranamente sono più sorpresi dalle mi visione politica che dal fatto che io non creda, ma viviamo ancora insieme. Questo è raro perché quasi chiunque altro abbia abbandonato la comunità ha affrontato un diverso destino. Di solito si viene esclusi e dimenticati, come si fosse morti. A rendere il tutto ancor più eccezionale è il fatto che mio padre è capitano dell’esercito, coinvolto nella ricerca ed identificazione delle persone scomparse il 7 ottobre.
Per quanto riguarda le amicizie invece?
Sono ancora in contatto con alcuni amici con cui ho studiato. Non sono molti, ma con loro sono molto vicino. La maggior parte invece non mi ha capito, ed ha tagliato completamente ogni rapporto con me.
Torniamo alla tua causa, come intendi portarla avanti? Hai amici palestinesi?
Non ne ho ma vorrei, non parlo arabo e per ora ho visitato molto poco i territori palestinesi. Mi voglio unire al progetto “Protective presence” con un gruppo che si chiama Looking occupation in the eye. Con loro userò i miei diritti a difesa di quelli Palestinesi, per proteggerli dalle confische ed aiutarli ad accedere in modo meno faticoso ad acqua ed altre risorse. Penso di iniziare una volta concluso il calvario giudiziario in cui sto per entrare per via della mia obiezione alla leva. Nel frattempo sono comunque attivo e presente in tutti gli eventi possibili contro l’occupazione.
Cosa puoi dirmi del 7 ottobre, come lo hai vissuto?
All’inizio il mio primo pensiero è andato a mio padre, perché sapevo che sarebbe stato chiamato a servire. Poi ho pensato alla dimensione senza precedenti di questo evento sul territorio di Israele, e sebbene abbia e continui a provare compassione per tutti coloro coinvolti in quel massacro, il mio pensiero è andato velocemente a Gaza, conscio del fatto, che il giorno dopo, sarebbe stata ferocemente rasa al suolo. Nell’immane tragedia che si è consumata quel giorno qualcuno, in alto, ha visto un’opportunità per accelerare il progetto coloniale. Questa tragedia deve però essere invece per la gente comune una opportunità per rendersi conto che queste logiche non possono portare a nulla se non all’autodistruzione. Purtroppo siamo ancora una piccola minoranza, ma ci sono segnali di crescita. Prima o poi la mia gente aprirà gli occhi. L’occupazione deve finire.
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