Le deposizioni degli agenti penitenziari, del medico del tribunale e dell’infermiere del 118. L’11 ottobre, la prossima udienza del processo bis, con altri testimoni dell’accusa
«Il viso era parecchio segnato, attorno agli occhi e nella parte destra della mandibola, in particolare. E camminava male. Ho disposto che non fosse ammanettato come gli altri detenuti perché non si reggeva in piedi. Secondo la mia esperienza aveva preso qualche schiaffo, qualche pugno, sì. Era evidente che era stato pestato. Quando gli ho chiesto cosa fosse successo mi ha risposto che era scivolato dalle scale».
Malgrado i nove anni trascorsi e a differenza di altri testimoni, non fa fatica a ricordare i particolari importanti, l’ispettore superiore di polizia penitenziaria Antonio La Rosa che ieri ha testimoniato nel processo bis per la morte di Stefano Cucchi a carico di cinque carabinieri, tre dei quali accusati di omicidio preterintenzionale (mentre fuori centinaia di persone partecipavano ad un sit in per chiedere verità e giustizia sotto lo striscione «Sappiamo chi è Stato»).
In quel 16 ottobre 2009 La Rosa era a capo della scorta che trasferì il ragazzo romano, arrestato dai militari la sera prima per spaccio, dal tribunale dove si tenne l’udienza di convalida dell’arresto fino al carcere di Regina Coeli. L’ispettore fu il primo a raccontare certi particolari anche davanti le telecamere di Matrix, camuffato perché non lo riconoscessero, appena un mese dopo gli avvenimenti.
Poi, continua La Rosa davanti alla Corte d’Assise di Roma, «mentre camminavamo sulla rampa per uscire dal tribunale, Cucchi mi chiese se a Regina Coeli ci fosse una palestra perché lui faceva il pugile, teneva incontri di pugilato. E in uno scambio di battute con gli altri detenuti ha aggiunto: ne ho fatto uno anche stanotte. E qualcuno gli ha ribattuto: ma tu hai fatto la parte del sacco».
Dall’udienza di ieri appare chiaro quel che durante tutto il primo processo era stato negato: che Stefano Cucchi era stato picchiato durante la notte passata in stato di arresto, e che i segni delle percosse erano evidenti, anche perché il giovane era palesemente sofferente e si muoveva male. Ma aveva paura di raccontare la verità.
Se ne era accorto anche un altro agente penitenziario, il secondo dei tre che costituivano la scorta: «Durante le ispezioni di solito facciamo spogliare i detenuti e imponiamo una flessione per controllare che non abbiano oggetti nell’ano. Ma con lui non è stato possibile – ricorda l’assistente Luciano Capo – si alzò soltanto la maglietta, e quando vidi che aveva tutti segni rossi sul corpo non ritenni opportuno che la togliesse. I pantaloni invece non riuscì proprio a toglierli, li abbassò solo, era troppo dolorante. E non riuscì neppure a fare la flessione. Chiesi se era stato arrestato per rissa, visti quei segni particolarmente evidenti sulla parte sinistra in basso della schiena». «Lei cosa pensò che gli fosse successo?», chiede il pm Giovanni Musarò. «Io non ho pensato nulla», risponde l’agente.
Che allora però si informò subito della presenza di un certificato che attestasse le lesioni, perché «avrebbero potuto pensare che gli fossero state procurate durante il tragitto dal tribunale al carcere». «Per cautelarci», spiega meglio il suo collega Salvatore Mandaio, il terzo della scorta, che ricorda: «Quando doveva salire le scale di Regina Coeli, Cucchi mi ha detto: “Non ce la faccio, mi fanno male le gambe”».
Se ne sono accorti tutti, che qualcosa non andava, perfino l’infermiere Francesco Ponzo che intervenne con l’ambulanza del 118 chiamata alle 5 del mattino del 16 ottobre dagli stessi carabinieri della caserma di Tor Sapienza e che ha modo di guardarlo in volto solo per qualche secondo, in una stanzetta buia (ma non chiede di accendere la luce).
Ponzo parla con Cucchi per circa dieci minuti (arrivano alle 5,17 e vanno via alle 5,35, secondo i verbali) alla presenza di tre militari che assistono «in silenzio» al colloquio. Ma il giovane, che è disteso sul lato sinistro, con la faccia rivolta verso il muro e si nasconde sotto una coperta , nega di avere bisogno di aiuto e rifiuta di andare al pronto soccorso (ma non sa, perché nessuno glielo dice, che avrebbe potuto rimanere solo con il personale medico).
Se ne accorgono tutti, anche il medico del tribunale, Giovanni Battista Ferri, che lo visitò nella camera di sicurezza, chiamato dalla polizia penitenziaria «solitamente per cautelarsi, soprattutto quando gli imputati presentano segni sul corpo non refertati». «Riferiva dolori alla regione sacrale e agli arti inferiori ma rifiutò la visita. Ho potuto vedere solo il viso e constatare ecchimosi color porpora presumibilmente dovuti ad effetti traumatici che, a giudicare dal colore, erano avvenuti non oltre le 24 ore». Il medico ammette che sì, in effetti non lo aveva convinto la storia delle scale: «Strane queste scale che non lasciano segni sul naso», gli aveva detto, e Cucchi aveva risposto: «E saranno state scale strane…».
Ferri però ritenne che le condizioni di salute di Stefano erano compatibili con il carcere anche se, spiega, «ho pensato che a Regina Coeli comunque c’era un reparto radiologico». Incalzato dall’avvocato della famiglia Cucchi, Fabio Anselmo, ammette: «Se fosse stato un paziente del mio studio privato? Se avessi potuto parlargli e avessi notato segni traumatici, avrei sicuramente raccomandato una lastra». Ma per Stefano Cucchi no, nessuna radiografia da prescrivere.
Eleonora Martini
da il manifesto
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Presidio fuori dal Tribunale di Roma in occasione della prima udienza del processo ‘Cucchi Bis’. A processo cinque carabinieri: Alessio Di Bernardo, Raffaele D’Alessandro e Francesco Tedesco, all’epoca dei fatti in servizio presso la stazione Appia di Roma. Sono accusati omicidio preterintenzionale. Altri due militari sono accusati di falso e calunnia: il maresciallo Roberto Mandolini (che comandava la stazione) e Vincenzo Nicolardi, al quale viene contestato solo il secondo reato.
Negli atti si legge chiaramente che Stefano Cucchi sarebbe stato picchiato selvaggiamente «con schiaffi, calci e pugni», che gli avrebbero provocato gravi lesioni. A causa del pestaggio Stefano avrebbe riportato la rottura di una vertebra e la lesione del nervo sacrale, con conseguente «ritenzione urinaria e bradicardia giunzionale» che, per l’accusa, avrebbero provocato un’«aritmia mortale». Al presidio di oggi – lanciato da Sapienza Clandestina – molte realtà di movimento romane, al fianco della famiglia Cucchi.
Ore 12.45 – Dentro il Tribunale è iniziata l’udienza nella quale si susseguono le dichiarazioni dei testimoni portati dall’accusa. Nel frattempo Giovanni Cucchi, padre di Stefano, ha portato i saluti e i ringraziamenti della famiglia al presidio. L’aggiornamento con Francesco, compagno di Degage. Ascolta o scarica.
Ore 10.30 – Dal presidio la prima corrispondenza di Dario, compagno di Degage. Ascolta o scarica.