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Ruanda-Congo, la guerra del coltan

Anche Washington tira le orecchie a Kigali, mentre il commercio del coltan non conosce crisi

di Gianni Sartori

Soltanto venti giorni fa, in occasione del 18° vertice della francofonia (Oif, in rappresentanza di una novantina di Stati) nell’isola tunisina di Djerba, Louise Mushikiwabo (ministro degli esteri Ruandese dal 2009 al 2018 e segretaria generale dell’Oif, appena rieletta per i prossimi quattro anni) lanciava accuse (se non proprio del tutto infondate, perlomeno non documentate) secondo cui ci sarebbero “elementi nella Repubblica democratica del Congo, proprio alla frontiera con il Rwanda, che sono una minaccia per la sicurezza del mio paese”.

Quando in realtà – stando ai rapporti onusiani – quello che sta avvenendo sarebbe esattamente il contrario. Basti pensare al sostegno anche di natura militare dato dal governodi Kigali (e dal presidente Kagame di etnia tutsi,quella che subì il genocidio del 1994) al movimento M23 che imperversa nel Nord Kiwu, una regione nell’est della Repubblica democratica del Congo (RdCongo) da dove sono fuggiti centinaia di migliaia di sfollati (e dove, ricordo, sono stati assassinati l’ambasciatore Luca Attanasio e il carabiniere Vito Iacovacci).

Erano passati soltanto alcuni giorni quando, il 29 novembre, veniva attaccata la città di Kishishe (circa 70 km da Goma, la capitale del Nord Kiwu).

Se inizialmente si parlava di una cinquantina di vittime, via via che le indagini proseguivano si arrivava alla cifra terribile di oltre 270 civili (tra cui diversi bambini) rimasti uccisi.

Stando alle fonti ufficiali, il governo e le forze armate congolesi, la responsabilità dell’attacco cruento sarebbe del Movimento 23 marzo (che però, da parte sua, smentisce). Nella generale costernazione del Paese, il presidente della RdCongo, Felix Tshisekedi, aveva indetto tre giorni di lutto nazionale.

Significativo che tale strage sia avvenuta (come una provocazione per sabotare gli accordi se non di pace, almeno di non belligeranza attiva) a soli cinque giorni dall’ultima dichiarazione di cessate il fuoco. Anche se, forse inopportunamente, M23 (inattivo dal 2013 al 2021) era rimasto escluso dalle trattative del vertice dei Grandi Laghi (fine di novembre) che si erano svolte a Luanda.

Invitato invece (ma aveva preferito farsi sostituire dal suo ministro degli Esteri, Biruta) Paul Kagame, il presidente del Rwanda.

Intanto, dando prova di scarso tempismo, l’Unione Europea approvava il 1 dicembre un ulteriore stanziamento (circa 20 milioni di dollari) per l’esercito ruandese. Ufficialmente per rafforzare la lotta al terrorismo in Mozambico (regione di Cabo Delgado), ma alcuni osservatori non escludono che in parte tali finanziamenti vengano dirottati ad alimentare il conflitto nel nord Kiwu.

Recentemente la politica di Kagame nei confronti della RdCongo è stata messa in discussione proprio da uno dei principali sostenitori del governo di di Kigali.

Il segretario di stato statunitense Antony Blinken ha chiesto infatti a Kagame di non sostenere ancora M23 e di promuovere concretamente “pace e stabilità”.

Critiche che non sarebbero state ben accolte dal presidente del Ruanda.

Quanto a M23, sarebbe costituito soprattutto da miliziani ed ex insorti di etnia tutsi (ma spesso di nazionalità congolese) che in parte erano stati integrati nell’esercito congolese. Il tentativo di smantellare le unità formate appunto da tali ex ribelli (o di trasferirli in altre regioni della RdCongo) aveva provocato la loro ribellione.

Attualmente chiedono l’amnistia e la possibilità di rientrare dai campi profughi del Ruanda e dell’Uganda per i rifugiati tutsi di nazionalità congolese.

Senza escludere la possibilità di essere reintegrati nell’esercito congolese in modo da poter esercitare un maggiore controllo su traffici e commerci nel nord Kiwu.

Per esempio quello del cobalto, nella cui estrazione, su un totale di trecentomila minatori, sono coinvolti almeno 35mila bambini ridotti in schiavitù.

Oppure dell’altrettanto famigerato coltan che ugualmente si estrae a mani nude con danni irreparabili per la salute dei giovanissimi minatori. Per non parlare degli abusi sessuali di cui sono vittime.

Da qui il coltan, attraverso una catena commerciale gestita da bande, milizie e mercenari di varia etnia ed estrazione (a cui le compagnie subappaltano il lavoro sporco), arriva in Ruanda e Uganda. Per essere acquistato dalle compagnie che si occuperanno dell’export, eventualmentedella raffinazione. Destinazione finale: le multinazionali in Germania, USA, Cina…