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Il sequestro della Sea Eye e la guerra del governo alle navi delle Ong

È la terza nave di salvataggio che viene sequestrata in tre giorni, dopo l’Aurora della Sea Watch a Lampedusa, e il rimorchiatore della Open Arms a Carrara. Navi, quelle delle Ong, oggetto di un violento attacco da parte del governo, tra l’assegnazione di porti per lo sbarco sempre più lontani dal luogo di salvataggio, fermi amministrativi e multe

di Yasmine Accardo

E’ una giornata afosa a Salerno. La Sea Eye 4 è da poche ore attraccata al porto, molo commerciale Manfredi, una distesa di cemento dove il sole brucia anche l’asfalto. A bordo ci sono centoquattordici persone salvate da morte certa nel Mar Mediterraneo. Insieme ad altri solidali siamo qui per portare supporto all’equipaggio. Sul molo è tutto pronto, a cominciare dai tendoni montati per le pratiche di sbarco e prima identificazione. Sono presenti gli operatori della Croce Rossa, alcuni medici (tra cui il gruppo del ministero della salute per i controlli a bordo), forze dell’ordine (squadra mobile della polizia e guardia di finanza), alcuni mediatori e operatori di associazioni di accoglienza, due referenti Frontex.

Lo sbarco avviene senza grossi problemi: i migranti scendono dalla nave a gruppi, incontrano i medici per pochi secondi, poco prima di scendere dalla scaletta, e poi si recano alla zona deputata al foto-segnalamento. Su un furgoncino della Croce Rossa è fissato un metro per misurare l’altezza delle persone. È lì davanti che si collocano i profughi, che sono stati dotati di un grande foglio bianco su cui è stampato un numero, che mantengono sotto al viso, all’altezza del petto, mentre gli viene scattata la foto. Da qui passano velocemente sotto una tenda dove sono collocate alcune sedie. Restano lì e aspettano indicazioni.

In quest’area sono presenti un ufficiale di Frontex, con una mediatrice, un referente della guardia di finanza e altre persone che aspettano chi sbarca. L’ufficiale porge ai primi arrivati pochissime rapide domande, dopodiché chi è stato interrogato può spostarsi verso una tenda dove riceverà acqua, prima di salire su un autobus. Dall’autobus arriveranno direttamente alla zona dedicata all’identificazione (impronte digitali e dati), all’esterno del porto.

Le operazioni procedono piuttosto velocemente, fino a quando non arrivano due cittadini, un egiziano e un palestinese. L’ufficiale di Frontex, coadiuvato da una mediatrice araba, interrogherà per più di mezz’ora uno di loro, appuntando le risposte su un foglio. L’uomo è molto provato, sembrerebbe aver bisogno di tutto fuorché di un interrogatorio di questo tipo, che comunque sarà solo il primo di una lunga serie. Gli organi deputati alla difesa dei diritti delle persone migranti e rifugiate non ci sono: due referenti di UNHCR arriveranno per una veloce osservazione solo a fine sbarco, spostandosi poi – immaginiamo – nella zona deputata alle identificazioni. In loro assenza, l’operatore Frontex porta avanti il suo lavoro di “sorveglianza e controllo” con le modalità che più ritiene opportune, del tutto incontrastato. A noi solidali viene impedito di avvicinarci, né possiamo dare a nessuno informative sul diritto di difesa in questo paese, non essendo prevista la presenza di legali indipendenti.

Terminato lo sbarco, vengono rapidamente smontati i tendoni. La ciurma festeggia il successo dell’operazione e non vede l’ora di poter ripartire. Sono tante, infatti, le imbarcazioni che si stanno muovendo da Libia e Tunisia in questi giorni per affrontare la frontiera acquea più mortale del mondo, e l’equipaggio freme per tornare subito in mare. È bene ricordare che le navi di salvataggio sono allo stato attuale indispensabili, non essendo presente un programma pubblico che salvi le persone intervenendo sulle imbarcazioni che si trovano in condizione di pericolo.

In attesa della disinfestazione che viene svolta da prassi a ogni fine sbarco, gli organi di polizia di frontiera controllano i documenti del personale di bordo. Pare tutto sia andato bene, ma si capirà dopo qualche ora che non è esattamente così. La sera stessa giunge, infatti, la notizia del sequestro della nave e il fermo di due presunti scafisti, “un palestinese e un egiziano”.

È la terza nave di salvataggio che viene sequestrata in tre giorni, dopo l’Aurora della Sea Watch a Lampedusa, e il rimorchiatore della Open Arms a Carrara. Navi, quelle delle Ong, oggetto di un violento attacco da parte del governo, tra l’assegnazione di porti per lo sbarco sempre più lontani dal luogo di salvataggio, fermi amministrativi e multe, come quelle statuite dal decreto legge n.1 del 2023, convertito con alcune modifiche dalla L. 24 febbraio n.15 nonostante il testo sia in pieno contrasto con le convenzioni e il diritto internazionali¹. Il decreto definito “anti-Ong”, presuppone infatti che non siano ammissibili soccorsi multipli in mare, in violazione dell’obbligo di soccorso previsto dalla Convenzione Solas (cap. V, reg.33), che prevede che il soccorso sia svolto rapidamente e immediatamente in qualsiasi caso in cui vi siano persone in pericolo. La discrezionalità diventa in questo modo un’arma nelle piene mani dell’autorità, che decide se le Ong possono o non possono intervenire al salvataggio.

La Sea Eye, dal canto suo, ha effettuato in queste settimane soccorsi multipli (tre in zone “search and rescue” non italiane) come previsto dal diritto internazionale e del mare, comunicando a chi di competenza ogni passaggio e ogni dettaglio. Chi ha conoscenza di persone in pericolo in mare è tenuto infatti al soccorso, cosi come è tenuto a condurre le persone in un porto sicuro (non certo, quindi, in Libia, paese dove le persone vengono sottoposte a tortura durante il loro percorso migratorio; a tal proposito si ricorda la sentenza del 13 ottobre 2021, con cui il tribunale di Napoli ha condannato a un anno di reclusione il comandante della nave privata Asso28, per aver riconsegnato alle autorità libiche alcuni migranti salvati in acque internazionali).

Se a fianco della Sea Eye 4 si è già mobilitato un gruppo di avvocati pronti a battagliare su un fermo illegittimo, oltre che inumano, resta evidente come il nodo principale del decreto Piantedosi sia proprio la prescrizione per cui, dopo il primo salvataggio, l’equipaggio di una nave deve recarsi al primo porto sicuro senza poter più soccorrere altri migranti che si incontrano eventualmente durante il viaggio, pur nel medesimo stato di necessità. Una misura che rappresenta benissimo un’idea di frontiera volta a tutelare più i confini che gli individui, che non può e non vuole garantire canali sicuri di ingresso, e che è emblematica della politica governativa finalizzata a blindare i confini e a impedire libertà di movimento, sebbene la propaganda del governo annunci l’aumento dei flussi legali e dei canali umanitari. Va sottolineato inoltre che, secondo il decreto, le navi che reiterano per la terza volta la violazione dello stesso, verranno confiscate (la prima violazione prevede un fermo amministrativo di venti giorni e una multa dai tremila ai diecimila euro; la seconda un aumento di multa e un fermo di due mesi; la terza il sequestro e la confisca della nave): un tentativo palese di mettere fine alla possibilità del soccorso in mare da parte delle Ong.

Se l’approccio penalistico applicato dal governo giallo-verde in materia, infatti, non aveva funzionato (il processo alla capitana Rakete non ha dato i frutti sperati), l’esecutivo Meloni ha individuato il piano amministrativo come terreno d’azione per fermare il lavoro delle navi umanitarie. Navi che non sono invise al governo tanto per il numero dei migranti che salvano, ma in quanto testimoni scomode di ciò che accade nel Mediterraneo. In quest’ottica vanno lette anche le modalità con cui vengono condotte le indagini delle squadre mobili nell’immediatezza dello sbarco: i migranti soccorsi in mare poche ore prima, senza alcuna possibilità di accesso ad avvocato di fiducia, vengono messi sotto torchio nel tentativo di costruire su qualcuno di loro la figura dello scafista, dirottando l’immaginario pubblico su un unico possibile responsabile delle morti. È un esempio perfetto del cosiddetto “diritto penale del nemico”, che designa lo scafista come il colpevole da individuare a ogni sbarco, per esimere da ogni responsabilità politica e economica la fortezza Europa.

È indubbio che i paesi occidentali e le loro polizie sappiano con precisione quali sono le organizzazioni che programmano e attivano i viaggi, traendone profitto, al contrario di persone molto spesso accusate solo per aver scelto di guidare una barca che stava affondando in mare (è il caso, in molte occasioni, di marinai e militari disertori, o di tanti altri segnalati dalla campagna LasciateCIEntrare e dai report dell’Arci Porco Rosso). Non è un caso che i quadri accusatori sul reato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina siano stati spesso smontati in processi attuati con le dovute garanzie, come nel caso dei cittadini eritrei processati a Roma nel 2021.

A questo resoconto è doveroso aggiungere una breve riflessione riguardante l’ultimo atto del viaggio, ovvero il momento in cui le persone salvate pensano di aver terminato la loro odissea, una volta raggiunta terra. Con l’approdo in Italia, invece, è per loro solo iniziato un nuovo calvario, quello legato a un sistema di accoglienza che si è riusciti a demolire e peggiorare progressivamente negli anni, soprattutto lasciandolo nelle mani di privati intenzionati a farne profitto. Gli ultimi decreti hanno normato, nello specifico, un sistema-dormitorio senza alcun tipo di assistenza o percorsi di inclusione, mettendo l’ennesimo timbro sulla volontà di relegare i migranti in arrivo alla marginalità e a un destino di sfruttamento, chiudendo il cerchio sulla costruzione dello straniero come nemico da isolare e allontanare.

A tale ferocia dovremmo rispondere tutti e tutte con una mobilitazione permanente, per l’abolizione di questo confinamento in cui, da posizioni diverse, ci ritroviamo tutti. Il rischio è quello di essere consegnati alla storia come una generazione cieca e inumana, che non ha avuto il coraggio di guardare alla realtà con la necessaria radicalità e “con gli occhi rivolti al mare”.

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¹ Si veda il Regolamento U.E. n.656/2014

 

da NapoliMonitor

 

 

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