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Dove si trova Santiago Maldonado?

Santiago Maldonado è scomparso in Argentina il 1 agosto 2017 durante una repressione della Gendarmeria contro il popolo mapuche nelle terre dell’imprenditore italiano Benetton. Ad un mese dalla desapariciòn vis ono state moltitudinarie mobilitazioni in tutto il paese: a Buenos Aires la polizia ha caricato violentemente il corteo, sparando sulla folla lacrimogeni e proiettili di gomma e arrestando manifestanti e giornalisti. Oggi nuove testimonianze inchiodano alle proprie responsabilità lo Stato e la Gendarmeria.

Oltre duecentocinquantamila persone hanno manifestato a Buenos Aires il 1 settembre, ad un mese dalla scomparsa di Santiago Maldonado per mano della Gendarmeria, e altre decine di migliaia nel resto del paese hanno reclamato l’apparizione in vita del giovane chiedendo le dimissioni del presidente Macri e del Ministro degli Interni Bullrich. Alla fine della manifestazionein Plaza de Mayo la polizia ha violentemente attaccato il corteo che si stava sciogliendo. Il tentativo di criminalizzare il movimento, fare paura ed imporre una narrazione mediatica della giornata basata su immagini di scontri con la polizia per togliere visibilità di una enorme e pacifica manifestazione che reclamava apparizione in vita del giovane desaparecido, si materializza verso le nove di sera con idranti, lacrimogeni, proiettili di gomma. Come potete vedere nel video, non sono mancati i rastrellamenti e una violenta caccia all’uomo per le strade del centro della capitale con decine di feriti e 30 arresti, detenuti da venerdi fino a domenica notte, senza alcuna assistenza legale nè medica (saranno rilasciati, grazie a 48 ore di mobilitazione popolare e proteste dei legali, tra le quattro e le cinque del mattino di lunedi).

Come possiamo vedere nel video, gli arrestati urlavano il proprio nome alla stampa per evitare di “scomparire” per mano della polizia, che non solo ha picchiato ed arrestato i giornalisti che stavano documentando le cariche ma, come testimoniato da diversi fermati, sul blindato che li portava al commissariato intimava ai fermati di rispondere alle loro domande minacciando che in caso contrario “finirete desaparecidos”. Si tratta della messa in pratica di una pedagogia della crudeltà, come direbbe l’antropologa Rita Segato, volta a distruggere legami di empatia e solidarietà sociale attraverso un dispiegamento di massa di molteplici livelli di violenza sessista, razzista e classista, che accompagnano l’avanzare delle politiche neoliberiste a livello globale e che oggi in America Latina si dispiegano con rinnovata e particolare violenza. Gli avvocati degli arrestati hanno denunciato manomissioni e imprecisioni nei verbali degli arresti, finalizzati a giustificare la repressione della manifestazione: come racconta su Tiempo Argentino la giovane fotografa Paola Montero (arrestata mentre documentava la repressione poliziesca) è stata la polizia stessa ad attaccare il corteo che si stava sciogliendo. A proposito di disciplinamento sessista dei corpi, a seguito di una caccia all’uomo che ricorda quella dello sciopero internazionale delle donne lo scorso 8 marzo, una delle ragazze arrestate ha denunciato di essere stata costretta a desnudarsi e di essere stata filmata da un poliziotto durante l’arresto.

Il nemico interno

Il governo nega le responsabilità della Gendarmeria e criminalizza il dissenso e la protesta sociale, costruendo il nuovo nemico interno, lo stesso di sempre: i popoli indigeni, ed i mapuche in particolare, diventano oggetto di fantomatiche e deliranti accuse di terrorismo e separatismo. Già a gennaio vi era stata una pesantissima repressione come prima tappa di una strategia del governo che per l’ennesima volta tenta di “costruire il prossimo nemico da sterminare” come afferma l’antropologa Florencia Trentini: quando il Ministro Bullrich dice che non permetterà l’istituzione di una “repubblica autonoma” mapuche, mente sapendo di mentire, perché lo storico reclamo dei popoli mapuche, che vivono in Patagonia da ben prima della formazione degli Stati nazione, non è mai stato quella della formazione di un altro Stato, ma la rivendicazione del diritto alla terra e del diritto a vivere in modo differente, ed infine il riconoscimento dell’Argentina come “Stato plurinazionale che riconosca le diversità culturali”.

La lotta per le terre ancestrali, riconosciute nella Costituzione e dalla legge 26160 del 2006 – oggi a rischio di cancellazione – diventa sempre più densa di ostacoli a causa dei progetti estrattivi delle multinazionali, delle mega miniere e della concentrazione delle terre nelle mani di pochi proprietari (stranieri) che usurpano le terre indigene con la complicità dello Stato che privatizza e reprime. L’obiettivo di questa intensa criminalizzazione della lotta sociale (con arresti, perquisizioni e intimidazioni ad attivisti, organizzazioni per i diritti umani e movimenti sociali a Cordoba la sera prima del corteo per Santiago, in seguito ad una manifestazione contro il “gatillo facil” che rivendicava verità e giustizia per i morti per mano della polizia) è quello di creare paura ed impedire l’espansione della nuova ondata di protesta sociale che in questi due anni sta quotidiamente contendendo giorno dopo giorno le piazze e le strade del paese in risposta alle politiche di austerità del governo Macri.

Come segnala Diego Stzulwark in una bellissima intervista a cura di Amador Fernandez, la sovrapposizione della logica di un’economia estrattivista con il tentativo di definire come “terrorista” (in linea con le indicazioni del Comando Sud degli Stati Uniti che definisce i mapuche un pericolo per la sicurezza dello Stato) ogni forma di resistenza alla spoliazione e al saccheggio territoriale produce questa situazione di violenza contro le popolazioni sfollate e deportate dai propri territori a causa della riorganizzazione spaziale e proprietaria del capitalismo contemporaneo. La repressione e la criminalizzazione dei popoli indigeni altro non è che l’attualità di quella colonialità del potere, per dirla con Quijano, propria del sistema di dominazione capitalista globale, che oggi permea le nuove forme di accumulazione e di estrazione di valore dai territori. In questo contesto occorre leggere le operazioni repressive nella comunità Lof en resistencia Cushamen tra gennaio ed agosto di quest’anno.

I poliziotti che sono entrati armi alla mano nella comunità in lotta contro l’imprenditore italiano Benetton, gridando “ammazziamo uno di questi indios di merda” hanno molto in comune, compreso gli interessi che difendono, con i militari argentini protagonisti del massacro degli indigeni nella genocida “campagna del deserto”, evento che sta alla base dell’espansione dello Stato argentino nella Patagonia alla fine del 1800, o dei conquistadores spagnoli, e mostra la persistenza della dominazione razzista e coloniale come assi centrali dello Stato contemporaneo. Questa continuità dimostra chiaramente come la lotta per le terre ancestrali non sia per nulla una battaglia residuale o anacronistica, fuori dalla storia, come amano dipingerla i media mainstream o i portavoce della Benetton e di altre multinazionali che hanno usurpato le terre indigene, quanto piuttosto il giusto (e tardivo) riconoscimento di un diritto umano dei popoli indigeni, peraltro costituzionalmente sancito. Per tutelare gli interessi di chi privatizza ed espropria terre e risorse naturali il governo criminalizza le lotte indigene e soprattutto quei popoli, come i mapuche, che mostrano grande capacità di mobilitazione e resistenza. L’arresto del leader mapuche Facundo Huala Jones rientra nell’ambito di una offensiva contro il diritto all’autodeterminazione e all’accesso alle terre, svendute dallo Stato argentino alle multinazionali straniere, e la successiva desapariciòn di Santiago (durante una mobilitazione per la libertà del leader indigeno) in una precisa strategia per impedire la solidarietà tra le lotte sociali.

Se ci sono desaparecidos non c’è democrazia: dove si trova Santiago?

La questione è diventata un caso nazionale e poi internazionale grazie alla mobilitazione popolare: camminando per Buenos Aires (così come in decine di città e paesi in tutta l’Argentina ed ormai anche oltre) in queste settimane incontri sui bus e nelle metro, nelle case, per le strade, nei luoghi di lavoro, sui muri della città, nelle facoltà e nelle scuole, appese sui balconi, immagini, adesivi, striscioni e cartelli che chiedono “Donde està Santiago Maldonado?”.

Le foto del giovane artigiano solidale con la lotta degli indigeni mapuche compaiono ovunque, nei social network è virale la campagna “Soy xxx y estoy en xxx. Donde està Santiago Maldonado?” che denuncia le responsabilità dello Stato, del governo Macri e del ministro degli Interni Bullrich, il cui capo di gabinetto Noceti (avvocato difensore dei genocidi dell’ultima dittatura) era il diretto responsabile dell’operazione repressiva che ha portato al sequestro e alla desapariciòn di Santiago. Le Madres de Plaza de Mayo hanno accompagnato fin dall’inzio la mobilitazione, dedicandogli diverse delle consuetudinarie manifestazioni del giovedì pomeriggio, sostenendo la famiglia e partecipando ai tanti momenti di lotta che si sono cominciati a diffondere ovunque. “Non vogliamo mai più tornare al terrorismo di Stato” afferma Nora Cortinas, “vogliamo la verità, Santiago vivo e le dimissioni del Ministro Bullrich che copre i responsabili di questo crimine”

La questione è diventata centrale nell’agenda pubblica, e sta aprendo una crisi politica. Nonostante le ultime elezioni primarie abbiano segnato la crescita a livello nazionale della colazione di governo, come analizzato da Veronica Gago e Mario Santucho, attorno al progetto di costruire “una nuova modalità di rappresentazione politica, attraverso cui viene ridefinita lo stessa sostanza della democrazia” che organizza in senso neoliberale le forme di vita e il senso comune nel paese ed ha aperto uno scontro sociale di tipo nuovo, in questi mesi abbiamo visto in Argentina come gli spazi di resistenza e di contropotere dal basso siano ancora capaci di ridefinire i confini dell’appropriazione neoliberale ed impongono dei punti di blocco al governo, come avvenuto con la legge sullo sconto di pena ai genocidi bloccata da un’enorme mobilitazione popolare. Così, anche nel caso di Santiago Maldonado, è stata la mobilitazione popolare ad imporre la verità nel dibattito politico: lo Stato è responsabile, processo e condanna per i colpevoli e apparizione con vita di Santiago sono le parole d’ordine che si moltiplicano nelle strade e nelle piazze.

Abbiamo visto dispiegarsi in queste settimane quell’opacità strategica, per dirla con le parole di Raquel Gutierrez Aguilar, che caratterizza le trame repressive del potere in America Latina. La strategia del silenzio e dell’invisibilizzazione dei fatti, perseguita dal governo e dei media, si è infranta grazie alle mobilitazioni popolari in tutto il paese, e la successiva strategia della menzogna e della criminalizzazione politica (fino all’istituzione di un numero di telefono per denunciare i docenti che nominavano Santiago Maldonado durante le lezioni) ha cominciato ad essere messa in discussione e decostruita grazie al lavoro di controinformazione e di mobilitazione popolare diffusa attorno allo slogan “lo Stato è responsabile, vivo se lo sono lo portati via, vivo lo vogliamo di nuovo tra di noi”. Molte falsità sono state dette, dal fatto che Santiago sarebbe passato alla clandestinità, che sarebbe stato il responsabile di un furto e potrebbe essere deceduto nella colluttazione (il dna del ferito non coincide con quello di Santiago, quindi questa “fantasiosa ipotesi” è stata scartata ufficialmente) fino ad una improbabile testimonianza, poi rivelatasi falsa, di un camionista che avrebbe dato un passaggio ad un giovane che gli assomigliava nei giorni successivi alla repressione in Chubut.

Contro le falsità che circolano sui media, familiari e amici hanno creato un sito su cui è possibile ricostruire la vicenda della desapariciòn di Santiago. I tentativi di depistaggio che i media mainstream e il governo hanno diffuso giorno dopo giorno si sono rivelati privi di fondamento: oggi, mentre l’avvocato della famiglia denuncia le irregolarità dei verbali della polizia durante le operazioni repressive nelle terre di Benetton e le responsabilità dello Stato nell’impedire una inchiesta seria sui fatti del 1 agosto, si è aperto ufficialmente, oltre un mese dopo la sua scomparsa, un processo per “desapariciòn forzada”, considerato crimine di lesa umanità, ed un secondo processo per chiarire se vi siano stati da parte del governo tentativi di coprire i responsabili. Pochi giorni fa tre testimoni, Matias Santana, Soraya Maicoño Guitart y Neri Garay si sono presentati in tribunale affermando, come già diverse persone avevano affermato fin dai giorni della sua scomparsa, di aver visto Santiago durante il blocco stradale e di averlo riconosciuto durante la repressione nella comunità dove il giovane sarebbe stato fermato, picchiato e caricato su una camionetta con insegne ufficiali della Gendarmeria, come possiamo leggere nell’intervista rilasciata dai tre testimoni subito dopo aver reso le proprie dichiarazioni presso il tribunale di Esquel. Notizia dell’ultima ora è che governo ha rifiutato la partecipazione delle Nazioni Unite in una commissione indipendente per sostenere le operazioni di ricerca di Santiago Maldonado nonostante lo avesse ufficialmente promesso alla famiglia.

Divenute evidenti la responsabilità della Gendarmeria, il ministro Bullrich, che poche settimane prima della scomparsa di Santiago aveva dichiarato di non aver paura di prendersi le responsabilità delle conseguenze della mano dura repressiva necessaria per mettere ordine nel paese, ha affermato che qualche gendarme potrebbe “essersi lasciato sfuggire la mano”. La nuova strategia del governo sarebbe quindi quella di riproporre la solita retorica sulla presenza di presunte “mele marce” nella Gendarmeria, addossando le colpe ai singoli poliziotti (che stanno testimoniando in tribunale in questi giorni), ulteriore ed ennesimo tentativo di negare le responsabilità politiche e militari della catena di comando ed impunità che da ben 40 giorni nasconde la verità su Santiago Maldonado. Le falsità diffuse in questi ultimi quaranta giorni sui media avevano un chiaro obiettivo: impedire che si potesse affermare pubblicamente che la violenza delle forze repressive dello Stato, l’impunità e le coperture politiche di cui godono, rendono di nuovo possibile, con il governo Macri, le “desapariciones” di oppositori politici in Argentina.

Nora Cortiñas poche settimane fa, durante la classica manifestazione delle Madres del giovedì pomeriggio in Plaza de Mayo, ha affermato: “Vogliono farci tornare al passato, commettendo il peggiore di tutti i crimini, un crimine contro l’umanità, quello della desaparición forzata di persone: lo Stato e il governo sono i responsabili, vogliamo verità e giustizia, per questo continueremo a lottare con la famiglia e gli amici di Santiago nella loro lotta, che è la nostra lotta”. E’ la stessa lotta che compone in uno spazio comune tutte le mobilitazioni popolari argentine di questi mesi, delle donne contro la violenza patriarcale e dei lavoratori e lavoratrici dell’economia popolare, dell’autogestione e dei sindacati, delle scuole in sciopero contro la riforma educativa e dei lavoratori contro gli attacchi dei diritti di tutti, quelle lotte che emergono nella straordinaria capacità di organizzazione e disposizione alla lotta sociale di una società che, come cantano in centinaia di miglia nelle piazze, non è stata sconfitta dalla dittatura militare nè si arrende ai piani del nuovo governo Macri. Una società in movimento che costruisce giorno dopo giorno nuovi spazi di resistenza, dignità e conflitto, molteplici linee di fuga dal binomio economia neoliberale e terrore che vorrebbero imporre. Per questo, quando nella piazze centinaia di migliaia di persone affermano “vogliamo Santiago vivo tra di noi, perché non può esserci democrazia quando ci sono desaparecidos“, quelle moltitudini di corpi che costituiscono la potenza della vita in comune ci mostrano che la democrazia si conquista nelle strade, con la lotta e la resistenza delle mobilitazioni popolari per la verità e giustizia, unico argine democratico e radicale alla violenza autoritaria del capitalismo neoliberale che devasta, saccheggia e uccide. Ed ancora una volta ci chiediamo: dove si trova Santiago Maldonado?

Alioscia Castronovo

da DinamoPress