L’accordo siglato a La Valletta (Malta) per quanto fallimentare, comincia a produrre i suoi nefasti frutti. Ce ne parla Emilio Drudi, peratro fra gli esponenti di spicco del Comitato per i Nuovi Desaparecidos, in un interessante articolo pubblicato in un quotidiano locale che vale la pena di riprendere. Emilio ha anche scritto a metà dicembre di una storia che, per quanto specifica, evidenzia la assoluta incompatibilità fra le politiche europee e quanto sta avvenendo ai confini eritrei nel campo dei diritti umani. Lo ringraziamo perché la sua testimonianza ci offre lo spunto per parlare di quelle che saranno, ahinoi in futuro, in assenza di seria opposizione, le politiche europee.
Soldi in cambio di uomini. In cambio dei migranti respinti dall’Europa e rispediti nei paesi di transito e prima sosta o da bloccare prima ancora che possano imbarcarsi, per poi rimpatriarli nei paesi d’origine. Magari di forza. E’ quanto prevedono gli accordi firmati a Malta l’11 novembre tra l’Unione Europea e una trentina di Stati africani, oltre che il trattato siglato con la Turchia il 29, sempre di novembre. Detto e fatto. Poco più di un mese dopo il vertice di La Valletta, tra i primi finanziamenti stanziati sono previsti consistenti aiuti alle polizie eritrea e sudanese per bloccare uno dei confini più porosi e battuti dai disperati in fuga dal Corno d’Africa.
Lo ha rivelato, in un articolo pubblicato da La Stampa, Ludovica Jona, giornalista di Oxfam, l’organizzazione internazionale contro la povertà e l’ingiustizia nel mondo, denunciando come, tra le pieghe del programma del Fondo Fiduciario Europa Africa istituito dal vertice di La Valletta, ci siano appunto anche iniziative che appaiono tutt’altro che in linea con le finalità della cooperazione e dello sviluppo dei paesi da cui vengono gran parte dei migranti in fuga verso l’Europa.
Il piano d’azione generale prevede interventi per 1,8 miliardi di euro, stanziati dal bilancio comunitario, più eventualmente altri 1,8 miliardi messi insieme con il contributo dei singoli Stati. Una prima tranche di 253 milioni è stata deliberata il 16 dicembre a Bruxelles e resa subito disponibile per dieci progetti. A destare forti perplessità è il primo di questi dieci progetti, quello che prevede 40 milioni a supporto dell’attuazione del Processo di Khartoum, il patto fortemente voluto dall’Italia e firmato il 28 novembre 2014 a Roma, che di fatto delega il controllo dell’emigrazione dal Corno d’Africa a dieci Stati africani, inclusi governi di assai dubbia democrazia o addirittura autentiche, feroci dittature, come quella di Al Bashir in Sudan e di Isaias Afewerki in Eritrea.
A leggere il deliberato del Fondo Fiduciario, si scopre che questi 40 milioni serviranno in particolare a contrastare il contrabbando e il traffico di uomini, potenziando il “border management”, ovvero la polizia di frontiera e le forze di sicurezza, fornendo “competenze ed equipaggiamenti”. In teoria, questa volontà di “migliorare la gestione dei confini” potrebbe anche sembrare una scelta positiva. Stranamente, però, non si tiene conto della realtà dell’Eritrea e del Sudan. E’ proprio qui il punto: la terribile realtà dell’Eritrea e del Sudan.
Dall’Eritrea – dove ottenere un visto di espatrio è pressoché impossibile persino per seri motivi di salute e dove non c’è nemmeno libertà di movimento all’interno del paese – fuggono ogni anno decine di migliaia di profughi in cerca di protezione dalle persecuzioni del regime: una fuga per la vita che, secondo i dati del Commissariato dell’Onu per i rifugiati (Unhcr), ha raggiunto ormai una media di 5 mila persone al mese. Non a caso sono eritrei circa il 27/28 per cento dei 150 mila migranti arrivati quest’anno in Italia. Ragazzi e ragazze sempre più giovani, costretti ad abbandonare tutto per salvarsi da una dittatura che – hanno raccontato in molti – con la militarizzazione totale e il servizio di leva praticamente a tempo indeterminato, “ti ruba la libertà e la vita stessa, tutta la vita”. Ed è evidente che le forze di sicurezza sono il braccio armato del regime: su ordine di Asmara, la polizia e l’esercito non esitano a sparare a vista, mirando ad uccidere, contro chiunque tenti di attraversare il confine.
Poco più di un anno fa, verso la fine di settembre del 2014, sono morti proprio così, sotto il fuoco della polizia di frontiera, tredici ragazzini di età compresa tra i 13 e i 18 anni, sorpresi a un posto di blocco, mentre tentavano di passare in Sudan: uccisi e poi fatti sparire in una fossa comune. Un massacro rimasto segreto fino a che la dolorosa ostinazione del padre di tre delle vittime, tre ragazzine minorenni, è riuscita a squarciare il silenzio, portando tutto alla luce. Ma, evidentemente, Bruxelles e i singoli governi europei non ne sono stati impressionati più di tanto, se è vero che ora hanno deciso di finanziare proprio quella polizia, responsabile della strage. Senza contare che si fanno sempre più insistenti le denunce della diaspora sulle complicità, dirette o indirette, nel traffico di profughi, di personaggi di rilievo dell’apparato poliziesco o militare eritreo.
Non basta. Accuse di complicità con i trafficanti sono state formulate a più riprese anche nei confronti di agenti e funzionari della polizia e delle forze di sicurezza sudanesi. Diversi rifugiati arrivati in Italia, ad esempio, hanno segnalato all’agenzia Habeshia di don Mussie Zerai che in Sudan gran parte dei campi profughi affidati alla tutela dello Stato sono diventati un facile “terreno di caccia” per i clan di “mercanti di uomini”. Racconti analoghi sono pervenuti ad Habeshia per telefono anche direttamente dal Sudan, specialmente dopo sequestri e sparizioni forzate. “Sono sempre più frequenti i rapimenti operati all’interno degli stessi centri di raccolta: in particolare nei confronti di ragazze e giovani donne”, ha denunciato più volte don Zerai in varie sedi, sia politiche che giurisdizionali, in Europa e in Italia. Hanno campo libero, in particolare, i Rashaida, la tribù beduina implicata da anni nel giro dei sequestri di esseri umani: i riscatti per rilasciare i prigionieri sono arrivati ormai a 50 mila dollari e, in più, c’è il pesante sospetto che in questo business rientri anche il lucroso traffico di organi per i trapianti clandestini.
E’ emblematico, a proposito del “potere” incontrastato di questi banditi Rashaida, l’assalto condotto giusto un anno fa, la mattina di Natale del 2014, contro il campo di Shagarab 3 da parte di una folta squadraccia armata che la polizia non ha contrastato minimamente mentre uccideva, feriva, rapiva, dava alle fiamme alloggi e baracche. Un autentico pogrom durato un’intera mattinata e favorito, se non dalla complicità, quanto meno dall’indifferenza delle forze di sicurezza che quel campo avrebbero dovuto proteggerlo. E va ricordato, in generale, che polizia e forze di sicurezza sono al servizio del regime per reprimere ferocemente qualsiasi forma di opposizione. Nella regione del Darfur, ad esempio, come evidenzia un dettagliato rapporto di Human Rights Watch, tra il 2014 e l’inizio del 2015 sono stati devastati centinaia di villaggi abitati da ribelli, con uccisioni, arresti, sequestri, rapimenti e stupri di giovani donne cercate e prelevate spesso casa per casa: decine di migliaia di profughi sono stati costretti ad abbandonare la propria terra.
Alla luce di tutto questo appare una beffa il paragrafo del piano di supporto al Processo di Khartoum che prevede “campagne di informazione sui pericoli della migrazione irregolare”. Per avere senso queste campagne dovrebbero prima di tutto mettere in guardia da quelle stesse polizie e da quegli stessi governi con cui l’Europa vuole collaborare, prevedendo finanziamenti di milioni di euro.
Situazioni a dir poco dubbie si registrano anche in Turchia, “premiata” con 3 miliardi di euro per il suo compito di gendarme dell’emigrazione. Le ha segnalate Amnesty International in un rapporto già molto eloquente nel titolo, “Il piantone dell’Unione Europea”, che rileva senza mezzi termini come l’Europa rischi “di rendersi complice” di pesanti soprusi e, in definitiva, di reati di lesa umanità “ai danni di rifugiati e richiedenti asilo”. Il dossier spiega che da settembre, quando è iniziata la trattativa con il Governo turco per rafforzare i controlli alle frontiere e ridurre il flusso migratorio, Ankara ha fermato centinaia di migranti, soprattutto siriani ed iracheni, che sono stati arrestati e in diversi casi costretti a tornare in zone di guerra. Anzi, alcuni di loro – precisa Amnesty – hanno riferito di essere rimasti incatenati per giorni in centri di detenzione distanti anche più di mille chilometri dal luogo dei fermi, picchiati e poi respinti nei paesi d’origine. Come dire: maltrattamenti, torture e poi espulsioni forzate indiscriminate.
La conclusione, secondo Amnesty, è che il trattato firmato il 29 novembre con il Governo turco va annullato o quanto meno sospeso. “Affidando alla Turchia il ruolo di piantone dell’Europa nella crisi dei rifugiati – ha dichiarato John Dalhuisen, direttore del programma Europa ed Asia Centrale dell’associazione – Bruxelles rischia di ignorare e incoraggiare gravi violazioni dei diritti umani. La cooperazione con Ankara in tema d’immigrazione deve cessare fino a quando questi fatti non saranno oggetto di indagine e si concluderanno”.
Lo stesso, ed anzi molto di più, può dirsi per il Processo di Khartoum e gli accordi di Malta firmati con l’Eritrea e con il Sudan. Ma l’Unione Europea e con lei in particolare l’Italia pare abbiano in realtà fatto la scelta di non vedere, non sentire, non parlare.
Emilio Drudi da a-dif.org