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Sovraffollamento nelle carceri, lo scandalo che non scandalizza

Il sasso lo scaglia un penalista, l’avvocato Fabio Anselmo. Un articolo pubblicato su ‘Il Fatto’: «Tutti indignati per i mafiosi ai domiciliari», scrive. «E il sovraffollamento delle carceri? La condizione di sovraffollamento delle carceri italiane costituisce oramai un elemento strutturale e tranquillamente accettato dalla cultura politica del nostro Paese radicatasi e radicalizzatasi negli ultimi decenni…».

In effetti su questo sono in pochissimi a indignarsi, a levare le loro voci, perché questa situazione cessi. Nel suo complesso, la classe politica, sia che sia al Governo, sia che si collochi all’opposizione, mostra una tetragona unità. Come acqua fresca su pietra liscia, scorrono le numerose sentenze di condanna della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. Come se la sentenza Torreggiani non esista. Carta straccia anche la Costituzione, quell’articolo 27 secondo il quale «L’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva. Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato».

Oggi, sempre più il carcere è una sorta di discarica di ‘rifiuti umani’ senza diritti e dignità riconosciuti e garantiti. ’Luoghi’ dove in 55mila sono stipati, e al massimo dovrebbero essere 47mila. Le vittime di questo sistema sono i detenuti, ma anche gli agenti della polizia penitenziaria, il personale carcerario, i volontari, senza i quali il sistema collasserebbe.

Poi è arrivata la pandemia. Il Coronavirus che non conosce confine, barriera, e al momento si contrasta solo con molta personale igiene, avendo a disposizione spazi individuali, evitando le promiscuità. Nelle carceri italiane non c’è nulla di tutto ciò. I rischi per chi nelle prigioni è recluso e vi lavora sono enormi. Il Dipartimento per l’Amministrazione Penitenziaria il 21 marzo scorso invia una nota con la quale chiede ai responsabili delle carceri «per combattere il contagio» di «segnalare detenuti over 70 con malattie». Nulla più che un censimento, e poi valutare (la valutazione spetta al magistrato di sorveglianza) se sia il caso di consentire la detenzione domiciliare e così sottrarlial rischio di gravi complicanze. Quelle che derivano dal Coronavirus.

Scoppia fragorosa la polemica. Francesco Bonuraè un mafioso della cerchia di Bernardo Provenzano. Ha 78 anni, gravi patologie oncologiche e cardiorespiratorie. Al di là del beneficio che gli è stato riconosciuto, tra meno di nove mesi comunque sarebbe uscito. Un altro scarcerato: Pasquale Zagaria, 60 anni, fratello di Michele, boss del clan camorrista dei Casalesi, trascorrerà i prossimi cinque mesi ai domiciliari in un paesino in provincia di Brescia. E’ gravemente malato, necessita di cure specialistiche. Negata la libertà a Raffaele Cutolo, boss di camorra. Ha 78 anni, gli ultimi quaranta trascorsi in galera per scontare i quattro ergastoli ai quali è stato condannato. Il 19 febbraio scorso le condizioni di salute si erano improvvisamente aggravate, Cutolo era stato trasferito in ospedale. Il 9 marzo, però, è tornato in carcere.

La domanda è questa: ma davvero dobbiamo credere che organizzazioni potenti, raffinate, ramificate, che gestiscono reti impressionanti e vorticose di malaffare in Italia e all’estero, giri di milioni e milioni di euro, interessi da far impallidire i prodotti nazionali lordi di molte nazioni, si affidano a personaggi come il 78enne Bonura, il 78enne Cutolo Gli affiliati alla Cosa Nostra, alla ‘ndrangheta, alla camorra sono ancora ai loro ordini, non li hanno sostituiti con altri liberi di muoversi e di agire…

Nino De Matteo, magistrato e oggi componente del Consiglio Superiore della Magistratura (con lui tanti), sostiene che Bonura (che, si ripete, fra nove mesi comunque sarebbe stato scarcerato per fine pena), costituisce un «segnale tremendo» col rischio «che questo Paese dimentichi definitivamente la lunga stagione della trattativa Stato-mafia che corse parallelamente» alle stragi mafiose. Un segnale che «rischia di apparire come un cedimento dello Stato di fronte al ricatto delle organizzazioni criminali che si è concretizzato con le violenze, le proteste delle settimane scorse nelle carceri di tutta Italia».

Non si rendono conto che se davvero Cosa Nostra, la ndrangheta, la camorra dipendessero da personaggi come i Bonura o i Cutolo, sarebbero qualcosa di ridicolo e non invece quello che sono; e che i veri boss, quelli ‘fuori’ che comandano e gestiscono il malaffare se la ridono, come se la ridevano quando un Provenzano incapace di intendere e volere veniva descritto come un boss onnipotente, temuto e riverito.

Giorni fa ci ha lasciato Aldo Masullo, filosofo estudioso del diritto, a lungo parlamentare. Ventidue anni fa il Senato discuteva la legge per abolire l’ergastolo. Masullo interviene. Spiega che «il tempo non è la misura della vita» ed è «l’emozione fondamentale che ci caratterizza come uominiDi ora in ora l’ergastolano vede morire parte di sé stesso senza che nasca alcuna possibilità nuova».

E’ un intervento del 29 aprile 1998, in occasione della discussione dell’ultimo disegno di legge per l’abolizione dell’ergastolo. Il Senato infine lo vota e approva. La Camera non ha mai trovato il tempo neppure per esaminarlo. Un intervento che nulla ha perso della sua attualità, e che ci consente di ricordare con affetto e rimpianto un autentico ‘Maestro’:

 «L’ergastolo, simbolo che ormai viene addirittura assunto come una sorta di strumento esorcistico, per neutralizzare la paura e l’insicurezza, è la negazione stessa del vincolo comunitario, la negata legittimazione di una società come società. Si tratta di un vincolo pregiuridico. Senza un vincolo pregiuridico, non si potrebbero costituire la norma e l’ordinamento giuridico.

Prima di costituirla che cosa saremmo? Saremmo forse meri animali bruti? No! Prima di costituire l’ordine normativo della società, siamo relazioni intersoggettive, rapporto con l’altro, comunità vivente. Violare, negare, sopprimere ogni apertura dell’esistente alla sua costitutiva possibilità, istante per istante, significa mortificare non solo il singolo, l’esistente, ma anche quella stessa originaria comunitarietà, senza di cui una società non è tale o è soltanto una società di insetti. Credo che questo sia un motivo di fondo.

Ritengo che averlo lasciato sottolineare in un’Aula parlamentare per bocca di un povero filosofo come me non sia affatto incongruo con la pratica civile e politica, perché una società che appunto non voglia ridursi a società di api e di formiche è impegnata continuamente a ritrovare la ragione profonda di sé medesima, al di là degli ordinamenti, che sono mutevoli, al di là delle circostanze, che sono transitorie, ad attivare quella ragione profonda senza di cui la nostra vita di esistenti non sarebbe tale. Credo il Parlamento debba avere questa capacità. Già sono aleggiate, nelle parole di alcuni colleghi, riflessioni vicine a quelle che ora sto riassumendo, e io voglio semplicemente sottolinearle, con rispettosa enfasi.

Credo che esse diano veramente respiro al Parlamento, e che un Governo e una maggioranza capaci di sentirsi portatori non di un ufficio di ordinaria amministrazione dello stato di cose presente, ma di un messaggio di civile rinnovamento e di ricostruzione morale, non possono fermarsi ai semplici calcoli delle economie sociali o delle economie giuridiche.

Non possiamo dimenticare che, anche se vogliamo attenerci alle esigenze dell’economia sociale e dell’economia giuridica, vi è in ogni economia che attenga all’umano un fattore che non è una variabile dipendente ma un’invariante assoluta, l’esistenza appunto. Ho sentito parlare di uomo, di persona, di diritti umani e di diritti della persona. Una parola tuttavia non ho ancora sentito, ed è la parola “soggetto”.

Cari colleghi, io ho l’impressione che noi, quando rivestiamo gli abiti pubblici nella loro oggettività, sembriamo vergognarci di guardare dentro la nostra soggettività. Ma così l’abito pubblico resta come un vestito che ricopre un manichino o sta sospeso ad un attaccapanni. Un abito pubblico che non rivesta un corpo vivente, un corpo che soffre e gioisce, che ha paura e speranza, è la negazione in termini di quella funzione che crediamo di star esercitandoSegnaliamo infatti ai nostri concittadini che la forza del diritto e della giustizia non sta nella ferocia inumana, ma nella capacità di dare ordine di ragionante umanità ai nostri sentimenti, ai nostri bisogni, alle nostre passioni. Se facciamo questo, signor Ministro, e tutti insieme collaboriamo in questa direzione, noi additiamo all’intera nostra azione politica quell’asse culturale alto, senza di cui la politica rimane con la ‘p’ minuscola, mentre tutti noi abbiamo la doverosa ambizione di fare una politica con la ‘P’ maiuscola, intesa non all’amministrazione della situazione di fatto, o del futuro stesso come sostanziale ripetizione, ma all’apertura dell’autentica possibilità, del futuro come innovazione: a lasciare insomma a coloro che verranno dopo di noi le condizioni per un ordine morale più ricco e alto in cui stiamo vivendo».

Valter Veciello

da l’indro