Martedì è stato scarcerato Antonino Speziale, l’ultrà del Catania che ha scontato la pena di otto anni e otto mesi per l’omicidio dell’ispettore Raciti, nel corso degli scontri dopo il derby tra Catania e Palermo il 2 febbraio 2007. Una condanna senza prove schiaccianti per un ragazzo innocente, libero finalmente, dopo aver scontato per intero la pena. Una vita sacrificata sull’altare del dogma del rispetto delle sentenze giudiziarie
Otto anni in galera, innocente. Otto anni passati tra quattro mura dopo un processo assurdo e una sentenza farsesca, reiterata per tre gradi di giudizio. Perché in Italia lo Stato, i suoi tentacoli e le sue diramazioni, lecite o meno lecite, sono sempre innocenti: che mettano le bombe nelle piazze, ammazzino ragazzi per strada, si uccidano tra di loro. E così quando l’ispettore del reparto mobile cade a terra durante gli scontri tra poliziotti e tifosi successivi al derby tra Catania e Palermo subito si cerca il colpevole tra gli impresentabili ultrà. Sono state loro, le belve, hanno lanciato una bomba carta, titolano a nove colonne i quotidiani.
Quando poi si scopre che l’ispettore è deceduto in ospedale per la rottura del fegato, causata da una botta o da un corpo contundente, ecco che come in quel famoso gioco di società si tirano ancora i dadi e si cerca una nuova arma del delitto. Ma il colpevole deve essere sempre lui, è stato già deciso. È il tifoso, l’hooligan, l’ultrà, la bestia. E così un ragazzone all’epoca minorenne si fa otto anni di galera, innocente. Perché serviva così. Perché era giusto così. Perché era meglio per tutti così.
Come definire una giustizia che prende per buona una ricostruzione arbitraria, assurda, che sfida tutte le leggi della logica e della fisica. Una ricostruzione che gli stessi periti dell’accusa hanno faticato a giustificare, derubricando l’omicidio a involontario. Chi ha voglia di leggersi le carte processuali troverà che il famigerato “sottolavello” che il ragazzone avrebbe scagliato contro il poliziotto, uccidendolo, avrebbe dovuto viaggiare con una curiosa traiettoria sinusoidale, oltre a scavalcare un muro, prima di colpire l’ispettore. Ma non troverà mai alcuna prova, foto, o anche solo testimonianza, che il ragazzone avesse davvero scagliato il sottolavello, da nessuna parte. E men che meno che sia stato questo sottolavello a uccidere il poliziotto. Anzi.
Otto anni passati tra quattro mura dopo un processo assurdo perché la testimonianza di un altro poliziotto, che quella sera in mezzo al caos si mette alla guida di un furgoncino discovery e facendo retromarcia prima «sente una botta» tremenda e subito dopo vede «l’ispettore riverso al suolo» non è messa agli atti. E poi in aula nelle varie fasi del processo è ripetuta in maniera sempre diversa, fino a modificare completamente il racconto.
E in questa storia che assume contorni sempre più torbidi, come le trame nere che da sempre legano i palazzi della politica con quelli della giustizia, si fanno nere anche le immagini delle telecamere di sorveglianza che avrebbero dovuto immortalare l’impatto del furgone con l’ispettore.
Ma a che servono le prove, se il colpevole era già stato trovato dallo Stato e dato in pasto all’opinione pubblica? O meglio al pubblico che segue i processi come fossero reality show televisivi, con i giudici protagonisti e star assolute della trasmissione da ben prima di Masterchef o di X Factor, basti pensare al Maxiprocesso o alla stagione di Mani Pulite. Il colpevole è già stato trovato, un applauso. Il nuovo ballerino anarchico veste gli abiti casual del tifoso: il folk devil che spaventa, che fa schifo, che da sempre rappresenta l’indicibile. «Il cattivo a tutto tondo senza alcuna possibile giustificazione o motivazione», ha scritto Valerio Marchi. Il colpevole fa schifo. Nessun pubblico da casa schiaccerebbe il pulsante del telecomando per salvarlo.
Otto anni in galera, innocente. Perché solo in Italia vige il tremendo modo di dire che le sentenze della magistratura non si discutono, le sentenze si rispettano. Non avessimo visto assolvere fior di stragisti e assassini, non stessimo ancora cercando i colpevoli in divisa di tutti i nostri morti.
Ma anche in assoluto frase più aberrante non esiste. Se tutti avessero sempre rispettato le leggi saremmo ancora allo Statuto Albertino, diceva Primo Moroni. E tutto sommato a nessuno verrebbe mai di sostenere che le leggi sono immutabili. Anche i più moderati convengono che sono migliorabili, riformabili. Non si capisce quindi perché invece le sentenze della magistratura godano di un’aura mistica, siano quasi moniti divini. Sarà forse merito del fascino della toga, o dello share televisivo. E questo forse è il vero problema.
Perché non solo se avessimo sempre rispettato e mai discusso le decisioni dei magistrati vivremmo ancora come schiavi, dei re e dei papi, ma perché oramai come pubblico siamo abituati che gli eroi devono sempre essere giovani e belli per potercene innamorare, per poterli difendere. E invece quel ragazzone, per mille motivi, non era un eroe. Era un essere umano pieno di guasti e di difetti, come tutti noi. Era semplicemente innocente. Per questo era ancora più meritevole di essere difeso. Troppo facile altrimenti.
Speziale innocente, lo abbiamo gridato da soli per dieci lunghi anni. Speziale libero, da martedi 15 dicembre finalmente lo è, con otto lunghi anni di ritardo, dopo una vita ingiustamente sacrificata sull’altare del dogma del rispetto delle sentenze giudiziarie.
Luca Pisapia
da DINAMOPress