Notte di proteste a St. Louis, in Missouri, a seguito dell’assoluzione di un poliziotto bianco, Jason Stockley, accusato di aver ucciso Anthony Lamar Smith, afroamericano, sparandogli cinque volte dopo un inseguimento, nel 2011.
L’AGENTE STOCKLEY, che ha lasciato il servizio e si è trasferito a Houston in Texas, affermò che il 24enne aveva con sé una pistola, dettaglio smentito sia dalla telecamera dell’auto di polizia che da quelle di sorveglianza di un locale vicino.
C’erano, invece, le registrazioni in cui si sentiva il poliziotto dire di voler uccidere Smith.
Secondo la ricostruzione, l’agente e il suo collega si erano messi all’inseguimento di Smith dopo averlo visto impegnato in un presunto traffico di droga, davanti a un ristorante; secondo le telecamere della polizia, il giovane aveva tentato due volte di urtare con la sua auto quella degli agenti.
A quel punto Stockley avrebbe affiancato l’auto dell’inseguito sparandogli cinque colpi con l’intenzione di colpirlo.
L’agente era stato anche accusato di aver messo una pistola nell’auto di Smith, per sostenere la tesi della legittima difesa, ma sull’arma era stato rintracciato solo il Dna del poliziotto.
UNA SERIE DI EVIDENZE che non avrebbero dovuto portare all’assoluzione per mancanza di prove, ma per il giudice Timothy Wilson la procura non è riuscita a dimostrare «ogni elemento oltre un ragionevole dubbio» o ad argomentare in modo persuasivo che l’accusato non abbia agito per autodifesa, e nella sentenza di 30 pagine si legge: «La corte osserva, sulla base di un’esperienza quasi trentennale in aula, che uno spacciatore di eroina urbano non in possesso di un’arma da fuoco rappresenterebbe un’anomalia».
LA SENTENZA ha inevitabilmente scatenato reazioni che con il passare delle ore sono diventate sempre più violente, in un’escalation di tensione sfociata in lanci di sassi e bottiglie verso la polizia che ha risposto con lacrimogeni.
Ci sono stati cassonetti e bandiere americane dati alle fiamme, la casa della sindaca democratica vandalizzata, 32 arresti, 20 feriti in ospedale tra cui 11 agenti di polizia.
A esacerbare gli animi non è stata solo la sentenza ingiusta che ancora una volta ribadisce che le vite degli afroamericani valgono meno di quelle dei bianchi, ma anche l’annuncio che il Dipartimento di Giustizia ha cancellato gli sforzi dell’era Obama per indagare i dipartimenti di polizia locali e rendere pubblici i documenti che ne provano i soprusi.
LA DECISIONE è stata resa pubblica dall’ufficio dei servizi di polizia che tiene i rapporti con le comunità, «Cops», il cui sforzo è quello di migliorare la relazione tra forze dell’ordine e i cittadini.
Negli ultimi anni l’ufficio «Cops» era stato gradualmente ampliato per condurre controlli regolari sui dipartimenti di polizia in difficoltà e determinare l’esistenza di problemi sistemici che richiedono il controllo di un tribunale nominato per correggerli, rendendo pubbliche le documentazioni a riguardo in un clima di trasparenza.
Venerdì il Dipartimento di Giustizia ha invece stabilito che lascerà tale lavoro alla sua divisione interna che si occupa diritti civili e che l’ufficio «Cops» sarà depotenziato e privato di potere, tornando a limitarsi a un vago ruolo di consulente della polizia per le pratiche, offrendo formazione e generica collaborazione.
NIENTE TRASPARENZA, niente più controlli delle zone a rischio, molte meno tutele dei cittadini. Questo accade poche settimane dopo la decisione dell’amministrazione Trump di ridotare i corpi di polizia cittadini di armi dell’esercito, cingolati inclusi.
Ciò che l’amministrazione Obama aveva fatto per tentare di risolvere il terribile problema di violenza della polizia su la comunità nera, tramite la demilitarizzazione delle forze dell’ordine e il controllo e l’intervento di un’entità al di fuori di un Dipartimento di Giustizia con cui è unito a triplo filo, è stato smantellato, con un balzo indietro che non ha mai portato a nulla di buono.