Stefano Cucchi, prima dell’arresto era in palestra: stava benissimo
- novembre 18, 2009
- in carcere, vittime della fini-giovanardi
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Quattro ore e mezzo prima di essere arrestato, Stefano Cucchi era in palestra, zona Anagnina, oltre Cinecittà, e non distante, in linea d’aria dalla caserma di Via del Calice, Capannelle, dove sarebbe andato a finire dopo essere stato catturato. ll badge d’accesso al centro sportivo segna alle 18.59 del 15 ottobre l’ingresso del geometra 31enne che morirà all’alba del giovedì successivo, il 22 ottobre, immobilizzato nel lettino del reparto penitenziario del Pertini. Da quattro giorni rifiutava cibo e cure perché gli veniva impedito di incontrare un avvocato di fiducia. Oltre al badge, la famiglia sta per consegnare alla Procura – che indaga su tre agenti di custodia per omicidio preterintenzionale e su tre medici per omicidio colposo – un certificato medico di sana e robusta costituzione datato 3 agosto. Stefano era tornato più magro dalle ferie e il suo istruttore gli aveva richiesto un certificato. Poi, rinfrancato dalle sue buone condizioni, lo stava allenando con pesi ed esercizi per aumentare la sua massa muscolare. Tutto ciò servirà per fare piazza pulita degli equivoci e delle insinuazioni sulla cagionevole salute di Stefano. Avesse avuto acciacchi, Stefano non avrebbe potuto frequentare quel posto ma Alfano ha ripetuto continuamente nei giorni scorsi le versioni su una caduta del giovane risalente a due settimane prima dell’arresto. Per la famiglia Cucchi sono giorni di dolore indicibile e le novità di ieri non migliorano certo la situazione. La riesumazione della salma è stata disposta per le 9 del 23 novembre per consentire ai consulenti delle parti di accertare le cause della morte. Tra gli esami previsti quello del Dna sulle tracce di sangue scoperte sui jeans, ora sotto sequestro. La famiglia ancora non sa dove si trovino quelle macchie ma le foto – scattate prima del funerale – mostrano ferite sotto il ginocchio destro e sulla tibia sinistra. S’è saputo solo ieri, inoltre, ma i fatti che seguono risalgono a una decina di giorni fa. Ossia a quando i genitori di Stefano hanno trovato la forza di passare a Morena, tra Ciampino e la Capitale, dove Cucchi stava sistemandosi un appartamento. Lì, in un armadio c’era una busta sospetta che, più tardi, sarebbe stata sequestrata dalla squadra mobile per conto del pm. Dentro quasi un chilo di hashish, 130 grammi di cocaina e bilancini. L’avviso immediato al pm della scoperta casuale «è la dimostrazione della trasparenza e della correttezza dei familiari di Stefano – dicono i legali Fabio Anselmo e Fabio Piccioni – anche per questo bisogna credere loro quando dicono che il figlio aveva il viso gonfio al suo arrivo nell’aula dell’udienza di convalida». La scoperta, invece, riaccende i riflettori sulla gestione dell’arresto e sulla notte in guardina, in una caserma di Tor Sapienza. Forse i carabinieri sospettavano che quella dei genitori non fosse l’unica dimora di Stefano. Forse erano contrariati dal magro bottino di quella notte, una ventina di grammi di fumo. L’ordinanza che gli nega i domiciliari, in casa o in comunità, dice che era un senza fissa dimora e che non c’erano prove che abitasse dove aveva dichiarato. Magari pensavano che, dopo un po’ d’isolamento, avrebbe parlato. Forse negargli l’avvocato di fiducia era uno strumento di pressione. In tribunale quando si trovò un legale d’ufficio, che neppure s’accorse della sua faccia gonfia, Stefano se l’era presa coi carabinieri. Sono domande. Ma chissà perché, quando arrivò l’ambulanza nella cella di sicurezza nei sotterranei di Tor Sapienza, Cucchi era arrotolato tra due coperte e col volto nascosto. E chissà perché rifiutò il ricovero e rifiutò di firmare quel rifiuto. Certo è che quel volto coperto «è una costante di questa storia – dice la sorella Ilaria a Liberazione – e non era un suo atteggiamento». I testimoni sarebbero tre. Uno ha raccontato il pestaggio nel sotterraneo di Piazzale Clodio, gli altri avrebbero raccolto le confindenze di Cucchi su un doppio pestaggio. Un sindacato di polizia penitenziaria – la Uil Pa – si lamenta che il testimone del tribunale sia sotto protezione in comunità: «Se il dispositivo di concessione dei domiciliari parla della necessità di tutelare l’incolumità fisica e alla necessità di sottrarre a condizionamenti ambientali il testimone ci troviamo, inequivocabilmente, di fronte ad un giudizio di illegalità del sistema penitenziario».
fonte: Liberazione
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