Menu

Storia di Said, da vent’anni in Italia con la famiglia. Ha perso il lavoro. Ora nel Cie di Gradisca d’Isonzo

Signor Said Stati, come sta?
Male. Ho iniziato lo sciopero della fame e della sete questa mattina. Sono molto arrabbiato.

Quando è stato arrestato?
Il 10 novembre scorso. Stavo andando dall’avvocato per il permesso di soggiorno, ero in macchina con un amico quando ci hanno fermato i carabinieri. Ho mostrato la carta di identità italiana, vivo a Garoldo da diciannove anni.

E poi?
Mi hanno tenuto in caserma a Brescia per due giorni, e ora sono rinchiuso da quattro mesi nel Cie. Ai miei bambini, per telefono, dico che sono via per lavoro. So che stanno male, che saltano spesso la scuola perché non capiscono cosa mi sia successo.

Come viene trattato nel Cie?
Mi umiliano. Mi danno da mangiare facendo passare i piatti sotto la porta come gli animali.
Non fumo, e mi mettono in stanza con fumatori. E mi hanno picchiato a sangue, a dicembre. Io non ho fatto niente.

Said comincia a singhiozzare. E’ molto provato. E’ detenuto nel Cie di Gradisca d’Isonzo con un decreto di espulsione perché ha perso il lavoro e dunque, dopo sei mesi, anche il permesso di soggiorno. E’ sposato con Nadia, marocchina come lui, e ha due figli: un maschio di otto anni e una femmina di tre. Said ha quarant’anni. Quando ne aveva ventuno è partito da Casablanca per raggiungere la sua famiglia – madre, padre e sei fratelli – nel Bresciano.
Non è un uomo fortunato. Nel 2005 una forte scossa di terremoto ha distrutto alcune case e aziende della zona di Salò, dove viveva. Una delle case era la sua. E una delle aziende era quella dove lavorava.
«Da allora», ci ha raccontato al telefono con un filo di voce, «ho sempre lavorato ma non mi hanno mai assunto». E dunque non ha potuto rinnovare i documenti. Il fratello Alì, titolare di un bazar a Villa Nuova, sul lago di Garda, è allibito: «La situazione è ormai insopportabile. Said è stremato perché non capisce cosa vogliono fare di lui. Cie significa centro di identificazione ed espulsione. Said è già identificato, cosa aspettano a mandarlo via? I parenti sono disposti a pagargli il viaggio, se lo Stato non ha i soldi».
Uno dei fratelli di Said ha la cittadinanza italiana, i suoi figli sono nati in Italia. E Nadia, la moglie, lavora ed è regolare. I bambini soffrono la mancanza del padre, dormono poco e spesso scoppiano a piangere per nessun motivo. Spesso rifiutano di andare a scuola e all’asilo.
Oltre alla detenzione, Said ha dovuto subire un pestaggio da parte di sei agenti di polizia. E’ accaduto nella notte tra il 28 e il 29 dicembre. Lo racconta così: «Alcuni ragazzi avevano tentato di scappare. Si sono ribellati, hanno distrutto la stanza dove dormivo. Per questo mi hanno rinchiuso, in isolamento, in una stanza fredda e senza materassi. Provavo a bussare per farmi aprire, ho citofonato ma nessuno rispondeva. Allora, preso dalla rabbia, ho colpito la vetrata e l’ho rotta. Sono arrivati sei poliziotti con la visiera abbassata, mi hanno detto: “Togliti gli occhiali”. Io ho chiesto: “Perché?”. E loro: “Perché adesso ti pestiamo”. Mi hanno dato un calcio al ginocchio e bastonate alle braccia, poi un colpo sulla testa e sono svenuto. Mi sono svegliato in infermeria».
Said ha denunciato il pestaggio, anche se non può identificare i suoi aggressori. A sua volta è stato denunciato, da uno dei poliziotti, per danneggiamento (i vetri rotti) e resistenza a pubblico ufficiale. Purtroppo l’unico testimone oculare dell’aggressione è stato liberato lo scorso giovedì, al termine dei sei mesi di detenzione. La sua avvocata, Simonetta Geroldi, due volte ha fatto richiesta di permesso di soggiorno per motivi di giustizia alla Questura di Gorizia, per il momento nessuna risposta. E il pm che segue l’inchiesta ha negato anche il nulla osta alla permanenza in Italia.
Geroldi ha anche richiesto il filmato che testimonierebbe del pestaggio, girato dalle telecamere del Cie di Gradisca. Secondo la polizia, quelle immagini sono «impossibili da estrapolare». Nelle foto scattate per i rilievi in seguito alle botte si vede una macchia scura sul pavimento. Per gli agenti «non si sa cosa sia» e nessun accertamento è stato eseguito. Per Geroldi «è chiaramente il sangue di Said». Le indagini sul presunto danneggiamento e la resistenza a pubblico ufficiale sono concluse, a breve Said saprà se dovrà affrontare un processo.
Said vorrebbe, soprattutto, uscire dal Cie. Le speranze sono appese ad un ricongiungimento famigliare che riporterebbe l’uomo in Italia, accanto alla moglie, ai bambini e al resto della famiglia che vivono con il fratello Alì.
«Sono davvero allibita», dice l’avvocata Geroldi commentando il caso: «Said non ha mai avuto guai con la giustizia eppure viene trattato peggio di un criminale. Una tortura psicologica indegna persino di un carcere».

Laura Eduati
da Liberazione