Superare il divieto per l’iscrizione anagrafica del richiedente asilo
Un’ipotesi interpretativa dell’Avv. Paolo Cognini. Si è molto discusso in questi giorni su come interpretare le recenti norme introdotte dal decreto legge “Salvini” e successivamente convertito in legge. Diverse amministrazioni comunali si sono interrogate sul come attuare o non attuare alcuni dispositivi. L’intervento dell’Avv. Cognini, non solo delinea un principo giuridico logico interessante, ma allo stesso tempo evidenzia come impedire al richiedente di regolarizzare la residenza implichi anche imporre allo stesso la violazione di norme, sanzionate penalmente, che invece prevedono l’obbligo, per chi ha la dimora abituale nel comune, di procedere alla propria iscrizione negli elenchi della popolazione residente
Riguardo alle problematiche attinenti all’iscrizione anagrafica dei richiedenti asilo, insorte in conseguenza a quanto disposto dall’art. 13 del Decreto-legge 4 ottobre 2018, n. 113, (convertito con modificazioni nella legge 1 dicembre 2018, n. 132), vorrei proporre un breve riflessione operativa per contribuire ad arricchire il terreno degli strumenti utilizzabili ai fini di una sostanziale disapplicazione del disposto normativo. Premesso che la questione deve essere primariamente affrontata sostenendo in tutte le sedi l’incostituzionalità della norma e la necessità di una disobbedienza radicale alla sua applicazione, resta il fatto che da diverse amministrazioni comunali, pur in assenza di iniziative eclatanti, pervengono richieste di indicazioni operative utili ad aggirare l’ostacolo.
A tale riguardo ritengo che alcuni tentativi possano essere esperiti senza perdere di vista la visione complessiva e la necessità di una battaglia volta alla rimozione giuridica della norma. Sotto questo profilo sono emerse nel corso delle settimane diverse ipotesi di approccio. In alcuni casi è stato individuato l’art.32 del DPR 223/1989 come uno strumento praticabile al fine di pervenire all’iscrizione dei richiedenti asilo nello schedario della cosiddetta “popolazione temporanea”.
Personalmente ritengo tale prospettiva densa di insidie e criticità, sia sotto il profilo delle implicazioni di natura “differenziale” che ne derivano, sia sotto il profilo dell’effettiva efficacia di tale strumento ai fini della tutela dei diritti fondamentali della persona connessi al riconoscimento della residenza. Credo tuttavia che l’art.32 del DPR 223/1989 possa tornare utile sotto una diversa prospettiva. L’articolo in oggetto prevede espressamente che lo schedario della popolazione temporanea concerna “…i cittadini italiani o gli stranieri che, essendo dimoranti nel comune da non meno di quattro mesi, non si trovano ancora in condizione di stabilirvi la residenza per qualsiasi motivo…” (la seconda parte del comma 1 relativa specificatamente agli stranieri non è rilevante in quanto fa riferimento ad un’ipotesi abrogata): l’iscrizione temporanea riguarda, pertanto, coloro che, nonostante risultino dimoranti nel comune da non meno di quattro mesi, non possano stabilirvi la residenza per i più svariati motivi, ovviamente non codificati.
A ben vedere, dunque, il disposto normativo attribuisce alla dimora nel comune da almeno quattro mesi la vis di integrare il requisito oggettivo della stabilità della dimora (necessario per ottenere la residenza) condizione che, tuttavia, nell’ipotesi contemplata dal citato art.32, non sfocia nella residenza a causa di altre variabili che intervengono nel caso specifico. Muovendo da tale dato normativo si potrebbe efficacemente sostenere la possibilità di pervenire all’iscrizione anagrafica ordinaria del richiedente asilo integrando l’esibizione del permesso di soggiorno con la documentazione attestante la presenza del richiedente nel territorio del comune da almeno quattro mesi (facilmente ricavabile dalla documentazione relativa all’inserimento del richiedente in accoglienza). In questo caso il richiamo all’art.32 del DPR 223/1989 avrebbe l’unica funzione di “agganciarsi” ad un parametro temporale “certo” e giuridicamente rilevante, in presenza del quale l’abitualità della dimora non sarebbe né contestabile né ignorabile, con la conseguenza che, in presenza delle altre condizioni, in primis quella della regolarità del soggiorno, il rifiuto dell’iscrizione anagrafica ordinaria (e non quella nella popolazione temporanea) sarebbe chiaramente ingiustificato. L’art.13, co. 1, lett.a, n.2 del D.l. Salvini dispone testualmente che “Il permesso di soggiorno di cui al comma 1 (ndr permesso per richiesta d’asilo) non costituisce titolo per l’iscrizione anagrafica ai sensi del decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 1989, n. 223, e dell’articolo 6, comma 7, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286” (disposto inserito nell’art.4 del D.lgs. n.142/2015 attraverso il nuovo comma 1bis).
Al fine di enucleare l’effettivo contenuto giuridico della norma è necessario dissociarlo dalla palese volontà “politica” del legislatore, chiaramente orientata ad impedire l’iscrizione anagrafica dei richiedenti asilo, per ricondurre l’interpretazione all’interno di canoni rigorosamente giuridici. Il fatto che nel disposto normativo non si sancisca direttamente il divieto di iscrizione anagrafica dei richiedenti asilo, ma unicamente l’asserita inidoneità del titolo di soggiorno, ha una sua implicazione: formalmente non è in discussione il diritto soggettivo all’iscrizione anagrafica (peraltro sancito da plurimi disposti normativi tuttora in vigore) ma il cosiddetto “titolo” atto a conseguirla. Così circoscritto il tema dell’interpretazione giuridica, è necessario interrogarsi sulla effettiva portata del contenuto normativo. A ben vedere, infatti, la normativa che disciplina il procedimento finalizzato all’iscrizione anagrafica non prevede ipotesi di iscrizione anagrafica conseguenti all’esibizione di una sorta di titolo “abilitativo” all’iscrizione stessa.
L’iscrizione anagrafica consegue unicamente alla sussistenza di una serie di condizioni, oggettive e soggettive, che nel loro venire in essere determinano l’insorgere del relativo diritto: tali condizioni sono sostanzialmente riassumibili nella sussistenza di documenti atti ad identificare l’istante, della dichiarazione di volontà dello stesso di stabilire la propria residenza nel territorio comunale, del requisito oggettivo della stabilità della dimora e della documentata regolarità del soggiorno, nel caso in cui si tratti di cittadino straniero.
In tale contesto normativo il concetto di “titolo per l’iscrizione anagrafica” non ha giuridicamente senso: esso potrebbe acquisire significato solo se riferito a specifiche e limitate ipotesi in cui l’iscrizione anagrafica conseguisse alla mera sussistenza del titolo di soggiorno, a prescindere dal concorso delle altre condizioni ed, in particolare, del requisito della dimora abituale (considerato che le altre condizioni risulterebbe comunque assolte).
La questione, se riferita alla posizione dei richiedenti asilo, potrebbe, in astratto, avere una sua logica. In via del tutto teorica, infatti, il permesso di soggiorno per richiesta di asilo potrebbe essere rilasciato anche in tempi molto brevi (la Commissione Territoriale dovrebbe provvedere al colloquio con il richiedente entro 30gg dal ricevimento della domanda, cosa che in realtà non si verifica mai), e, di conseguenza, venire ad esistenza prima ancora che la presenza del richiedente in un dato territorio comunale abbia maturato le caratteristiche della “dimora abituale” (consideriamo anche che non tutti i richiedenti sono inseriti nelle strutture di accoglienza). In un simile contesto sarebbe giusto, per le garanzie che dovrebbero comunque essere assicurate al richiedente, consentire la sua iscrizione anagrafica pur in assenza del requisito della stabile dimora: in tal caso si potrebbe correttamente parlare di “titolo valido per l’iscrizione anagrafica” perché l’iscrizione anagrafica conseguirebbe alla mera sussistenza del titolo di soggiorno, prescindendo completamente dal requisito della stabile dimora. Per le stesse ragioni il disposto di cui all’art.13, co. 1, lett.a, n.2 del D.l. Salvini non può che essere interpretato coma la negazione di tale specifica possibilità e non come il “divieto” generalizzato all’iscrizione anagrafica del richiedenti asilo.
In sostanza, attraverso tale linea interpretativa, l’ipotesi di legge, ovvero l’inidoneità del titolo di soggiorno ai fini dell’iscrizione anagrafica, andrebbe confinata nella mera eventualità che esso non sia integrato con l’elemento oggettivo dell’abitualità della dimora: ove tale titolo di soggiorno venisse prodotto unitamente alla documentazione comprovante “l’abitualità della dimora”, tale inidoneità sarebbe superata. Se così non fosse, l’intero sistema risulterebbe inficiato da una insanabile illogicità.
Nel caso in cui il richiedente asilo formulasse richiesta di iscrizione anagrafica documentando anche la stabilità della dimora nel territorio comunale, nell’ambito del relativo procedimento il titolo di soggiorno risulterebbe rilevante unicamente quale documento attestante l’identità del richiedente e la regolarità del soggiorno sul territorio nazionale.
Nello scrutinio dell’istanza il responsabile dell’ufficio anagrafe non avrebbe alcuna possibilità di valutare il permesso di soggiorno sotto profili diversi da quelli attinenti alla valida certificazione dell’identità del richiedente e della regolarità del suo soggiorno nel territorio nazionale: la normativa in materia di iscrizione anagrafica, infatti, non consente né di chiedere, né di valutare ipotetici titoli “abilitativi” all’iscrizione stessa. Nell’ambito, dunque, del procedimento di iscrizione anagrafica, in cui la richiesta di iscrizione sia stata opportunamente corredata con la documentazione comprovante il requisito della dimora abituale, un eventuale giudizio di “inidoneità” del permesso di soggiorno per richiesta d’asilo, non potrebbe assumere altro significato giuridico se non quello della sua inidoneità identificativa, il che risulterebbe in insanabile contrasto con quanto espressamente affermato nello stesso art.13, co. 1, lett.a, n.1 del D.l. Salvini, secondo cui “Il permesso di soggiorno costituisce documento di riconoscimento ai sensi dell’articolo 1, comma 1, lettera c) , del decreto del Presidente della Repubblica 28 dicembre 2000, n. 445” (disposto inserito nell’art.4, co. 1, del D.lgs. n.142/2015).
Sulla base di quanto sopra esposto, si potrebbe, dunque, pervenire ad un’interpretazione applicativa dell’art.13, co. 1, lett.a, n.2 del Decreto-legge 4 ottobre 2018, n. 113 secondo cui l’inidoneità del permesso di soggiorno per richiesta di asilo a costituire titolo utile all’iscrizione anagrafica, riguarderebbe unicamente i casi in cui ad esso non sia associato il requisito della dimora abituale, mentre non riguarderebbe la generalità delle richieste di iscrizione che, invece, di tale requisito si possano avvalere.
Ovviamente, il requisito della stabile dimora potrebbe essere comprovato attraverso diverse modalità. Il riferimento al parametro temporale dei quattro mesi che ho trattato nella parte iniziale ha primariamente una finalità “tattica”: considerato il difficile contesto in cui ci troviamo ad agire è bene agganciarsi a parametri formali e generali gestibili che, tuttavia, non esauriscono il campo delle possibilità laddove sia riscontrabile una maggiore elasticità interpretativa sul versante amministrativo.
In ogni caso è bene evidenziare che una richiesta di iscrizione anagrafica corredata dal titolo di soggiorno e dalla prova della dimora nel territorio comunale da almeno quattro mesi, porrebbe l’ufficio competente difronte ad una seria contraddizione: ignorare tout court il dato della dimora nel comune integrerebbe comunque una violazione dell’art.32 del DPR 223/1989, mentre l’iscrizione nella popolazione temporanea (che in ogni caso implicherebbe una specifica attività da parte degli uffici alimentando ulteriori contraddizioni) sarebbe a sua volta illegittima (e quindi impugnabile) in quanto le condizioni per l’iscrizione ordinaria sarebbero tutte sussistenti ed il ricorso allo schedario della popolazione temporanea ingiustificato.
Vale la pena, peraltro, evidenziare che nel maturarsi del requisito della dimora abituale, l’iscrizione anagrafica, oltre a configurare un diritto soggettivo della persona, configura anche un obbligo a cui assolvere. Ai sensi dell’art.2 della L.n. 1228/1954 “…E’ fatto obbligo ad ognuno di chiedere per se’ e per le persone sulle quali esercita la patria potestà o la tutela, la iscrizione nell’anagrafe del Comune di dimora abituale…” ed il mancato adempimento a tale obbligo viene espressamente sanzionato dal successivo art.11 dello stesso testo di legge, ai sensi del quale “…Chiunque avendo obblighi anagrafici contravviene alle disposizioni della presente legge ed a quelle del regolamento è punito, se il fatto non costituisce reato più grave, con l’ammenda da Euro 25,82 a Euro 129,11. Per le persone residenti nei territori dello Stato in seguito ad immigrazione dall’estero, che non hanno provveduto a curare la propria iscrizione e quella delle persone sottoposte alla loro patria potestà o tutela nell’anagrafe del Comune dove dimorano abitualmente… si applica l’ammenda da Euro 51,65 a Euro 258,23”.
Tutto ciò implica che laddove la dimora nel territorio comunale abbia assunto i caratteri dell’abitualità, l’iscrizione anagrafica integra anche gli estremi di un “dovere”, che altra norma dello Stato non può imporre di violare.
Personalmente ritengo che lo schema interpretativo proposto possa essere utilmente esperito, quantomeno al fine di valutarne “sul campo” gli eventuali esiti e di far emergere contraddizioni ed incongruenze che minano alla radice il nuovo assetto normativo. Resta comunque il fatto che, in attesa di risultati su altri piani, siamo costretti a muoverci in una logica di “riduzione del danno”, logica che può essere utile sotto il profilo contingente e tecnico-operativo, ma che non deve in alcun modo ridimensionare la battaglia centrale che siamo chiamati a sostenere, ovvero quella volta all’abrogazione dell’intero impianto normativo del D.L. Salvini, attraverso la sua delegittimazione giuridica (l’incostituzionalità), ma anche sociale e politica.
Avv. Paolo Cognini
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