Sono ormai purtroppo 60 i tentativi di suicidio avvenuti nell’arco di due mesi all’interno del centro per rimpatri di Torino. Il cpr deve chiudere, la cittadinanza non lo vuole
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Chi abita vicino al CPR di Torino è consapevole del via vai sempre più frequente di ambulanze che entrano ed escono dalla struttura.
La Prefettura ha istituito un bando per il cambio gestione del CPR, ma da indiscrezioni risulta che una proroga di Gepsa s.a., l’attuale gestore con contratto al termine, sia un’ipotesi sempre più concreta. Il CPR Brunelleschi è estremamente “attenzionato” dalla società civile e sotto indagine della Procura: evidentemente non è così “appetibile” per dei nuovi gestori.
E’ inoltre instancabile e preziosa l’attività dell’Autorità di garanzia, rappresentata dalla Dott.ssa Cristina Gallo.
Per la gestione delle cure intervengono i medici volontari dell’Ordine dei Medici di Torino.
Risulta che il vice-prefetto Accardi, che è stato delegato per anni alla gestione della struttura detentiva, continui ad operare in veste di volontario.
Appare evidente che manchino a tutti gli effetti le condizioni ambientali affinché il CPR, struttura detentiva, rimanga aperto senza ricorrere a criteri che travalichino ogni senso.
Si continuerebbe peraltro a riproporre il binomio Accardi-Gepsa, per il quale il Garante Nazionale delle persone private della libertà personale si è pronunciato con preoccupazione nel rapporto (a pag. 4, ma ne consigliamo la lettura integrale) della visita ispettiva al CPR di Torino dopo la morte di Moussa Balde: “Deve tuttavia essere rilevato come in qualche frangente nel corso dell’incontro con il Viceprefetto e l’Ente gestore vi siano state una sovrapposizione e una confusione di ruoli tra le due figure, l’una istituzionale committente e l’altra entità privata contrattualizzata, che dovrebbero invece rimanere ben distinte sotto il profilo del necessario controllo ispettivo che la prima deve esercitare sulla seconda”.
In occasione della funzione funebre di Moussa Balde, che in quel luogo si è tolto la vita a maggio, hanno partecipato, oltre alla comunità Guineiana e alla Comunità Islamica: il Comune, l’Arcidiocesi, la Diaconia Valdese, la Comunità Ebraica, il Comitato Interfedi, l’Autorità Garante, l’ASGI (Associazione Studi Giuridici sull’immigrazione). Suggeriamo di leggere l’articolo e di visualizzare le dichiarazioni raccolte.
Le dichiarazioni sono state inequivocabili, il CPR non deve esistere nel nostro territorio.
Desta grande inquietudine e preoccupazione un comma introdotto da Lamorgese nel Testo Unico sull’immigrazione: il comma 1.1 dell art. 14, che sancisce che con priorità all’interno dei CPR debbano essere detenute persone considerate pericolose.
Il CPR di Torino sta rimpatriando solo il 16% delle persone detenute a fronte di un 46% della media nazionale.
Talune persone possono quindi essere considerate pericolose, queste persone vengono trasferite, da tutto il territorio italiano, anche al CPR di Torino. Queste persone possono essere rilasciate in città perché non rimpatriabili (non vengono certo “riaccompagnate” ai luoghi di provenienza), con un evidente pericolo (peraltro individuato dalle stesse forze dell’ordine) per la cittadinanza ed un aggravio per la Questura delle attività di prevenzione del crimine sul territorio. Argomento che abbiamo ampiamente trattato in questo articolo.
Il significativo scostamento dalla, seppur molto bassa, media nazionale dei rimpatri desta diversi interrogativi: può essere anche determinato da un più corretto e attento criterio di accertamento delle morbilità ostative alla detenzione, ascrivibile all’attività più scrupolosa e autorevole dei medici dell’Ordine, cosa che, qualora verificata, imporrebbe una seria riflessione su tutti i CPR.
Purtroppo non risultano studi epidemiologici sui CPR, ma ormai è universalmente denunciato che siano incubatori di morbilità fisiche e psichiche, che sono spesso correlate, vista l’enorme incidenza di episodi di autolesionismo, in molti casi culminanti con il tentativo di suicidio.
Da notizie trapelate risulta anche una particolare preoccupazione da parte di Gepsa e della Prefettura per ulteriori rischi di morte: sussiste un fascicolo aperto dalla Procura, proprio per motivi sanitari, a seguito della morte di Moussa. Un’altra morte in quel luogo sarebbe insostenibile e fonte di ulteriori indagini giudiziarie.
Anche questo imporrebbe un’analisi più complessiva del sistema: l’attenzione per i requisiti ostativi alla detenzione non sarebbero evidentemente applicati con uguale attenzione negli altri CPR: ovvero sussisterebbe una maggior leggerezza sulle possibili attenzioni nei confronti di leggi, regolamenti e requisiti.
La morte di Moussa ha scosso enormemente l’opinione pubblica torinese che ha cominciato a prendere atto, molto più largamente, di ciò che è quella struttura.
La bassa percentuale nazionale di rimpatri, a fronte di un numero complessivo di detenuti di oltre 4.000 presenze, desta molteplici interrogativi sul criterio usato dallo Stato: la norma prevede che la detenzione debba avvenire a fini di rimpatrio. Utilizzarla come detenzione senza rimpatrio alimenta il sospetto di un criterio di detenzione per indesiderati, come ignobilmente avveniva nei lager.
Le proteste sono sempre più frequenti, sono molti i convegni torinesi nei quali vengono elencate le desolanti elusioni dei criteri generali e puntuali dell’Ordinamento.
I cittadini di Torino non vogliono questa esecrabile struttura.
Per citare una frase detta nell’ultimo convegno alla sala Valdese: Torino è una città intellettualmente e culturalmente molto vivace, fa dell’accoglienza un punto d’orgoglio, non può tollerare uno schifo del genere.
da pressenza