Certo, anche i numeri, oltre un certo livello, fanno qualità e non forniscono solo un dato quantitativo. Parlare come avviene in Turchia di migliaia di arresti e rimozioni fra militari, magistrati, docenti universitari e rettori, attivisti dei diritti umani configura un quadro allarmante che, infatti, rimanda alla proclamazione dello stato di emergenza (per 90 giorni, rinnovabili) e alla sospensione dei diritti civili, già decisa a in piena attuazione, nonché alla probabile reintroduzione della pena di morte. Un quadro a tinte nerissime che colloca il regime turco fra i più autoritari nell’intero scenario mondiale.
Ma non può dirsi che non vi fossero state avvisaglie in questo senso già negli ultimi mesi.
Gli arresti, le sospensioni, e i processi (per ora pochi) di più di mille accademici nel dicembre 2015 – gennaio 2016 avevano già individuato docenti e rettori come nemici interni da neutralizzare. La sospensione e gli spostamenti punitivi di quasi 600 magistrati e più di 2000 agenti di polizia all’inizio del 2014, dopo che era scoppiato sui media lo scandalo delle bustarelle che aveva coinvolto alcuni ministri di Erdogan e persino suo figlio, aveva dimostrato quanto avesse valore agli occhi del premier (allora non ancora presidente della Repubblica) l’indipendenza e quindi l’inamovibilità dei magistrati. I numerosi processi contro avvocati e giornalisti indipendenti avrebbero dovuto mettere in allarme per la violazione di ogni principio democratico e di difesa dei diritti umani su cui tali processi si fondavano. E così pure la chiusura di testate giornalistiche, Tv e siti web o la sostituzione delle loro dirigenze con uomini maggiormente proni all’esecutivo. Tutto ciò che già ci aveva posto in allarme e aveva fatto sì che, come avvocati internazionali impegnati sul fronte dei diritti umani doveva essere e per noi lo fu un campanello d’allarme sullo stato della democrazia in Turchia. Certo, oggi, visto quanto sta succedendo, i campanelli di allora suonano come delle flebili voci.
Eppure, almeno due provvedimenti legislativi degli ultimi mesi avrebbero dovuto destare maggiore impressione anche nell’opinione pubblica democratica internazionale costringendola a stare all’erta.
Il primo è una legge del marzo scorso, che aboliva l’immunità parlamentare. Essa, formalmente, riguardava tutti i parlamentari di ogni partito, ma in sostanza era mirata contro il partito moderato curdo, l’Hdp, che agli occhi del presidente aveva il torto di avergli sbarrato la strada – per ben due volte alla trasformazione della repubblica parlamentare in repubblica presidenziale. A seguito di quella legge, proprio nelle ultime settimane, quattro parlamentari dell’Hdp erano stati chiamati innanzi alla procura a render conto in inchieste contro di loro per presunta appartenenza ad associazione terroristica. Tutti questi quattro si erano rifiutati di rispondere alle accuse mosse dalla procura.
L’altro provvedimento legislativo era il nuovo ordinamento giudiziario, varato il primo di luglio, volto a ricondurre la magistratura giudicante ad atteggiamenti più benevoli verso le accuse che la magistratura requirente, già dipendente dall’esecutivo, muove nei confronti dei cittadini nei processi lato sensu politici.
Basti pensare che nel nuovo ordinamento si prevede che un quarto dei giudici del Consiglio di Stato, uno degli organi giudiziari più importanti del paese, sarà di nomina presidenziale. Mentre nelle corti superiori ci saranno meno giudici (ne debbono essere rimossi più di 700) e la loro nomina dipenderà dalla Corte Suprema e dalla Procura Generale, che dipende dal Ministro della Giustizia.
Le due leggi già delineavano con chiarezza un restringimento, anche a livello istituzionale, delle garanzie e la volontà di una salda presa dell’esecutivo sugli altri due tradizionali poteri, il parlamentare e il giudiziario. Ora, a seguito del tentativo di colpo di stato da parte di alcuni militari, questi provvedimenti che ho citato possono sembrare cose di relativo poco conto. Eppure erano altamente indicativi. Il tentativo di colpo di stato ha avuto il “merito” di mostrare con chiarezza la direzione verso cui va la politica turca: non più una lenta deriva autoritaria, ma il rapido instaurarsi di una dittatura, sia pure con il suggello di un vasto consenso popolare.
Torna in mente la Germania del 29 e 30 giugno 1934, quando il governo di Hitler, pur eletto dal popolo, prendendo a pretesto un fallito putsch, consumò col sangue la sua rottura con le Sa di Roehm, già alleate del partito nazista, ma riottose a sottomettersi completamente. Oggi, volendo individuare nell’imam transfuga Gulen il Roehm della situazione, ci rallegriamo per lui di trovarsi in Pennsilvanya invece che in una cittadina termale dell’Anatolia, come Roehm si trovava in una cittadina termale della Baviera. Anche se una sua estradizione dagli Usa è tutt’altro che improbabile, ove Erdogan minacciasse di dare via libera ai milioni di profughi siriani. Anche Hitler, come il presidente turco, non si limitò a uccidere ed epurare membri delle Sa, ma colse l’occasione per fare repulisti anche di altri oppositori. Anche Hitler due mesi dopo la notte dei lunghi coltelli, alla morte del presidente Hindenburg riuscì nell’intento di cumulare su di sé le due funzioni di capo del governo e di presidente, proprio come aspira a cumularle Erdogan. Hitler divenne il Fuhrer; ed Erdogan?
Lasciamo in sospeso la domanda, che si fonda su un’analogia veramente inquietante, per quanto la storia consenta di ricorrere all’analogia. Una cosa è sicura, oggi ancor più di ieri, il cosiddetto “mandato del popolo” ovvero la maggioranza elettorale e parlamentare, di per sé (e sottolineo “di per sé”) non è garanzia certa di difesa della democrazia.
Ezio Menzione – Avvocato, Osservatore Internazionale per l’Unione delle Camere Penali
da il dubbio