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Brasile: MIgliaia di persone in difesa di Lula

L’ex presidente brasiliano nella sede del sindacato metalmeccanici. Ore concitate a San Paolo, Sem terra e Sem tetto pronti a circondare l’edificio: «Non un passo indietro, difendiamo la democrazia»

L’ex presidente brasiliano e – in teoria – candidato per il Partito dei lavoratori alle prossime elezioni, Lula da Silva, non andrà oggi, venerdì 6 aprile 2018, a Curitiba per consegnarsi alla polizia, come invece richiesto ieri dal giudice Sergio Moro.

Lo ha dichiarato oggi Ricardo Kotscho, ex addetto stampa di Lula durante la sua prima presidenza, in una breve intervista con il quotidiano Folha de Sao Paulo. Per disposizione del giudice Lula dovrebbe costituirsi entro le 22.00 italiane per cominciare a scontare una pena di 12 anni di carcere per corruzione, dopo che i tribunali brasiliani hanno accelerato l’iter processuale dell’ex presidente.

L’ex presidente brasiliano, invece, probabilmente aspetterà che lo venga a cercare la polizia nella sede del sindacato metallurgico Abc, nella periferia di San Paolo, dove si trova attualmente riunito con i suoi principali alleati politici. “Se vogliono prenderlo, che vengano a prenderlo qui, in mezzo al suo popolo”, dicono i suoi sostenitori, a migliaia fuori dalla sede. Intanto Lula incassa l’appoggio politico del presidente venezuelano bolivarista Maduro, del presidente boliviano Evo Morales e del leader cubano Raul Castro i quali hanno inviato messaggi di solidarietà.

Il contributo di Gennaro Carotenuto, docente ricercatore di Storia contemporanea all’Università di Macerata, esperto di America Latina. Ascolta o Scarica.

da Radio Onda d’Urto

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Un’aggressione giudiziaria alla democrazia brasiliana

Siamo di fronte a quello che Cesare Beccaria, in «Dei delitti e delle pene», chiamò «processo offensivo» dove «il giudice», anziché «indifferente ricercatore del vero», «diviene nemico del reo»

Il 4 aprile è stata una giornata nera per la democrazia brasiliana. Con un solo voto di maggioranza, il Supremo Tribunal Federal ha deciso l’arresto di Inacio Lula nel corso di un processo disseminato di violazioni delle garanzie processali. Ma non sono solo i diritti del cittadino Lula che sono state violati.

L’intera vicenda giudiziaria e le innumerevoli lesioni dei principi del corretto processo di cui Lula è stato vittima, unitamente all’impeachment assolutamente infondato sul piano costituzionale che ha destituito la presidente Dilma Rousseff, non sono spiegabili se non con la finalità politica di porre fine al processo riformatore che è stato realizzato in Brasile negli anni delle loro presidenze. E che ha portato fuori della miseria 50 milioni di brasiliani. L’intero assetto costituzionale è stato così aggredito dalla suprema giurisdizione brasiliana, che quell’assetto aveva invece il compito di difendere.

Il senso non giudiziario ma politico di tutta questa vicenda è rivelato dalla totale mancanza di imparzialità dei magistrati che hanno promosso e celebrato il processo contro Lula. Certamente questa partigianeria è stata favorita da un singolare e incredibile tratto inquisitorio del processo penale brasiliano: la mancata distinzione e separazione tra giudice e accusa, e perciò la figura del giudice inquisitore, che istruisce il processo, emette mandati e poi pronuncia la condanna di primo grado: nel caso Lula la condanna pronunciata il 12 luglio 2017 dal giudice Sergio Moro a 9 anni e 6 mesi di reclusione e l’interdizione dai pubblici uffici per 19 anni, aggravata in appello con la condanna a 12 anni e un mese. Ma questo assurdo impianto, istituzionalmente inquisitorio, non è bastato a contenere lo zelo e l’arbitrio dei giudici. Segnalerò tre aspetti di questo arbitrio partigiano.

Il primo aspetto è la campagna di stampa orchestrata fin dall’inizio del processo contro Lula e alimentata dal protagonismo del giudice di primo grado, il quale ha diffuso atti coperti dal segreto istruttorio e ha rilasciato interviste nelle quali si è pronunciato, prima del giudizio, contro il suo imputato, alla ricerca di un’impropria legittimazione: non la soggezione alla legge, ma il consenso popolare.

L’anticipazione del giudizio ha inquinato anche l’appello. Il 6 agosto dell’anno scorso, in un’intervista al giornale Estado de Sao Paulo, il Presidente del Tribunale Regionale Superiore della 4^ regione (TRF-4) di fronte al quale la sentenza di primo grado era stata impugnata ha dichiarato, prima del giudizio, che tale sentenza era «tecnicamente irreprensibile».

Simili anticipazioni di giudizio, secondo i codici di procedura di tutti i paesi civili, sono motivi ovvi e indiscutibili di astensione o di ricusazione, dato che segnalano un’ostilità e un pregiudizio incompatibili con la giurisdizione. Siamo qui di fronte a quello che Cesare Beccaria, in Dei delitti e delle pene, chiamò «processo offensivo», dove «il giudice», anziché «indifferente ricercatore del vero», «diviene nemico del reo», e «non cerca la verità del fatto, ma cerca nel prigioniero il delitto, e lo insidia e crede di perdere se non vi riesce».

Il secondo aspetto della parzialità dei giudici e, insieme, il tratto tipicamente inquisitorio di questo processo consistono nella petizione di principio, in forza della quale l’ipotesi accusatoria da provare, che dovrebbe essere la conclusione di un’argomentazione induttiva suffragata da prove e non smentita da controprove, forma invece la premessa di un procedimento deduttivo che assume come vere solo le prove che la confermano e come false quelle che la contraddicono.

Di qui l’andamento tautologico del ragionamento probatorio, nel quale la tesi accusatoria funziona da criterio di orientamento delle indagini, da filtro selettivo della credibilità delle prove e da chiave interpretati va dell’intero materia le processuale. I giornali brasiliano hanno riferito, per esempio, che l’ex ministro Antonio Pallocci, in stato di custodia preventiva, aveva tentato nel maggio scorso una «confessione premiata» per ottenere la liberazione, ma la sua richiesta era stata respinta perché egli non aveva formulato nessuna accusa contro Lula e la Rousseff ma solo contro il sistema bancario.

Ebbene, questo stesso imputato, il 6 settembre, di fronte ai procuratori, ha fornito la versione gradita dall’accusa per ottenere la libertà. Totalmente ignorata è stata al contrario la deposizione di Emilio Olbrecht, che il 12 giugno aveva dichiarato al giudice Moro di non aver mai donato alcun immobile all’Istituto Lula, secondo quanto invece ipotizzato nell’accusa di corruzione.

Il terzo aspetto della mancanza di imparzialità è costituito dal fatto che i giudici hanno affrettato i tempi del processo per giungere quanto prima alla condanna definitiva e così, in base alla legge «Ficha limpia», impedire a Lula, che è ancora la figura più popolare del Brasile, di candidarsi alle elezioni presidenziali del prossimo ottobre. Anche questa è una pesante interferenza della giurisdizione nella sfera della politica, che mina alla radice la credibilità della giurisdizione.

E’ infine innegabile il nesso che lega gli attacchi ai due presidenti artefici dello straordinario progresso sociale ed economico del Brasile – l’infondatezza giuridica della destituzione di Dilma Rousseff e la campagna giudiziaria contro Lula – e che fa della loro convergenza un’unica operazione di restaurazione antidemocratica. E’ un’operazione alla quale i militari hanno dato in questi giorni un minaccioso appoggio e che sta spaccando il paese, come una ferita difficilmente rimarginabile.

L’indignazione popolare si è espressa e continuerà ad esprimersi in manifestazioni di massa. Ci sarà ancora un ultimo passaggio giudiziario, davanti al Superior Tribunal de Justicia, prima dell’esecuzione dell’incarcerazione. Ma è difficile, a questo punto, essere ottimisti.

Luigi Ferrajoli

da il manifesto