Sono le 5 del mattino di un giovedì qualunque a Sunset Park, Brooklyn. Piove. Chris, un uomo alto e robusto, con una barba color rame che gli spunta da sotto la mascherina, è il primo ad arrivare. «Sei qui per la pattuglia?», chiede. «Sì», rispondo.
Da lì a poco arrivano quattro uomini e una donna, tutti sulla ventina tranne uno, che sembra il capo. Parlano in inglese ma hanno origini messicane. Iniziano a darci istruzioni. «Cercate auto di produzione statunitense, con i finestrini oscurati», dice Jorge Muniz-Reyes, uno dei fondatori del gruppo. «Se notate qualcosa di strano, segnalatelo sulla chat del gruppo». Poi ci consegna un malloppo di volantini e mi aggiunge alla chat privata di Signal, un servizio di messaggistica istantanea criptato, considerato più sicuro dei suoi omologhi WhatsApp e Telegram. Osservo i volantini. Ci sono le foto di quattro uomini ripresi da una videocamera di sicurezza. Uno di loro ha un giubbotto con la scritta NYPD, l’acronimo della polizia di New York. Sopra l’immagine, la parola «Wanted», ricercato.
(Così come altri attivisti presenti in questa storia, Chris ha chiesto di non pubblicare il suo cognome per timore di ritorsioni da parte della polizia).
Le immagini stampate sui volantini sono state riprese verso le sette del mattino del 7 ottobre, quando sei uomini hanno provato a forzare l’ingresso in un edificio residenziale a Fort Greene, Brooklyn. Per circa due ore hanno battuto su porte e finestre – rompendone una – intimando alle persone all’interno di aprire.
Alcuni residenti hanno affermato si trattasse di agenti dell’Immigration and Customs Enforcement (ICE), l’agenzia di immigrazione statunitense, intenta a condurre un arresto. Alla fine, nessuno è stato arrestato e i presunti agenti se ne sono andati, lasciando terrorizzate le persone all’interno degli appartamenti.
Secondo gli attivisti del gruppo Sunset Park ICE Watch, di cui fa parte Chris, si è trattato di agenti di ICE camuffati da poliziotti. Non sarebbe la prima volta. Nel corso degli anni l’Immigrant Defense Project, un’associazione di legali che monitora le attività di ICE sul territorio di New York, ha documentato diversi episodi in cui gli agenti di immigrazione hanno mentito riguardo la loro identità per condurre un arresto. «Per anni, ICE ha utilizzato strategie ingannevoli per detenere persone migranti, e mentre queste diventavano più consapevoli dei loro diritti, le strategie si sono evolute nei modi più spregevoli», si legge sul loro sito. Nel 2018, l’associazione ha ottenuto e reso pubblici documenti interni dell’agenzia che dimostrano come simili strategie siano parte integrante della formazione ricevuta dagli agenti.
Il contesto legale in cui avvengono queste pratiche, conosciute come ruses, trabocchetti, è tuttavia controverso.
«Si tratta di una questione irrisolta», mi ha spiegato Ghita Schwarz, avvocata presso il Center for Constitutional Rights, un’organizzazione di patrocinio legale senza scopo di lucro. Sulla base del Quarto Emendamento della Costituzione – quello che impedisce perquisizioni non giustificate – nei casi di diritto penale è possibile ottenere la revoca di prove ottenute in modo illecito. Questo però non avviene nei casi di immigrazione. «I tuoi diritti sono così ridotti nei casi di immigrazione che è quasi impossibile affrontare tali questioni», mi spiega Schwarz.
Gli agenti di ICE raramente hanno un mandato di un giudice. Per entrare in una proprietà privata, hanno quindi bisogno del consenso dei proprietari. Ma il consenso può essere un concetto astratto. «Se ti bussano alla porta dicendo che sono della compagnia del gas, che c’è un’emergenza e devono assolutamente aprire, è da considerarsi consenso?», chiede retoricamente Schwarz.
Ma ICE non ha mai ammesso l’utilizzo di simili strategie. «Sono tutte illazioni senza fondamento» – dice Marcus Johnson, il portavoce di ICE, al telefono -, agli agenti è proibito identificarsi come un soggetto diverso da ICE o dalla polizia, visto che sono sono agenti federali, e in nessun caso agenti del corpo di polizia di New York».
Nello stato di New York ci sono circa 866 mila migranti irregolari, secondo una stima fatta dal Migration Policy Institute. Questi sono in gran parte localizzati a New York, dove contribuiscono all’economia cittadina principalmente in settori quali la gastronomia e l’edilizia. Più di un terzo proviene dal Messico e dall’America Centrale.
New York è una delle cosiddette «città santuario» degli Stati Uniti, come vengono chiamate quelle città la cui giurisdizione impedisce o ostacola forme di cooperazione con l’agenzia di immigrazione. Per questo motivo la presenza di un giubbotto con la sigla della polizia locale durante un operativo di presunti agenti di ICE ha destato tanto stupore.
Verso metà della nostra pattuglia, Chris butta un occhio al telefono. Le altre squadre di pattuglia, tutte composte da coppie, hanno iniziato a mandare messaggi di allarme.
– «La polizia attiva da queste parti».
– «Ho sentito anche alcune sirene».
– «Credo di aver visto un agente sotto copertura».
– «Tienici aggiornati porfa».
Per ora non sembra esserci bisogno di noi. Dovesse confermarsi la presenza di ICE però, Chris è pronto a muoversi. Confida nel fatto che essere bianco e cittadino lo protegge da possibili abusi. «O almeno è quello che spero», mi dice ridendo. Io penso al mio visto da studente e mi chiedo se non sia il caso di lasciar perdere.
Avevo conosciuto Chris circa due settimane prima, durante una formazione per ronde anti-ICE. Seduti in cerchio sul prato di Prospect Park, a Brooklyn, insieme a una quarantina di altri volontari siamo stati accolti dagli organizzatori di NYC ICE Watch, un neonato gruppo di attivisti il cui obiettivo è creare una rete di cittadini per impedire le deportazioni dei migranti irregolari.
«La cosa più importante è familiarizzare con il quartiere», ha detto Andre, uno dei formatori, usando un megafono, «parlate con le persone. Imparate cosa è normale e cosa non lo è».
Le istruzioni sono di pattugliare le strade tra le cinque e le sette del mattino, quando si verificano secondo gli attivisti la maggior parte delle operazioni contro i migranti irregolari. Se dovessimo notare qualcosa di insolito, abbiamo il compito di segnalarlo tramite una linea telefonica attiva 24 ore su 24, allegando foto e video degli elementi che consideriamo sospetti. A quel punto, se la presenza di ICE dovesse essere confermata un messaggio verrebbe inoltrato a più di 1,000 iscritti invitandoli a presentarsi nel luogo in cui sta avendo luogo l’operazione per filmare gli agenti e, possibilmente, impedire l’arresto delle persone migranti. «Gli renderemo la vita impossibile», mi ha detto Andre, riferendosi agli agenti dell’immigrazione.
Una delle partecipanti al workshop, Sara, ha 50 anni ed è originaria di Pittsburg, mi ha spiegato che si è convinta a partecipare dopo aver visto il video del presunto raid di Fort Greene. »Stanno usando metodi sempre più ingannevoli. È inquietante».
Ma riconoscere un raid di ICE non è sempre facile. Il 21 ottobre la polizia ha arrestato un attivista, Brian Garita, 27 anni, che aveva cercato di impedire un arresto mettendosi di fronte all’auto degli agenti, impedendone la manovra. Al telefono, mi ha spiegato che gli agenti avevano rifiutato di identificarsi e aveva quindi pensato si trattasse dell’immigrazione. Invece, poco dopo, ha scoperto che si trattava di agenti della U.S. Postal Inspection Service che stavano arrestando un uomo accusato di traffico di stupefacenti. «Noi facciamo le pattuglie unicamente contro ICE – mi ha detto Garita -, non vogliamo ostacolare altre agenzie, soltanto ICE, perché utilizza strategie aggressive e ingiuste».
Garita, Chris e gli altri attivisti non sono gli unici ad essere preoccupati dalla scarsa trasparenza delle operazioni di ICE. Il 9 ottobre scorso, due giorni dopo i fatti di Fort Greene, il sindaco di New York, Bill de Blasio, ha inviato una lettera al direttore di ICE, Tony H. Pham, esprimendo preoccupazione per la tendenza dell’agenzia ad arrestare migranti con l’inganno. «Queste attività compromettono la volontà e la serenità della comunità migrante nell’interagire con la polizia».
ICE ha risposto lamentandosi della scarsa cooperazione della polizia locale, e annunciando la conclusione di un’operazione che ha portato all’arresto di 54 persone nell’area metropolitana di New York di cui, secondo quanto riportato, almeno l’80% con precedenti penali e condanne pendenti.
La pattuglia si conclude alle sette del mattino, puntuale. «Stasera è stata piuttosto tranquilla», mi dice Chris prima di andare a casa per preparare le sue due figlie, accompagnarle a scuola e spostarsi a Manhattan dove lavora. Io mi trattengo a un Dunkin’ Donuts, sorseggiando un pessimo caffè. Un paio di ore dopo il telefono vibra, è un messaggio di Chris. «Domani, 5 am, stesso posto».
da il manifesto